Una volta arrivati a Punta Ala c’è da chiedersi principalmente perché ci si è andati. C’è da chiedersi perché sulla via Aurelia, all’altezza del bivio per Tirli e Punta Ala, si sia scelto quest’ultima destinazione invece del sopravvalutato e pittoresco borgo di minatori toscani. Dove sarebbe stato possibile bere una birretta seduti al tavolo di un bar ordinario a un prezzo ordinario (cosa che è successa dopo). Punta Ala è un Santuario della religione abbandonata dell’ottimismo seguito all’italico boom, un monumento a un brioso presente-aperitivo a ciclo continuo di una cena-futuro ancora più briosa e sempre di là da venire e che comincia a palesarsi perlomeno improbabile. Un paese fantasma ben tenuto, a distanza di sicurezza dal reale e dalle sue contraddizioni. Ma lasciamo perdere queste considerazioni sicuramente pregiudiziali e legate al gusto personale e parliamo del pratino di Punta Ala.
Il pratino che accoglie il pellegrino, il viandante, il semplice visitatore compresso tra il fronte di cemento e il mare, si presenta col cartello, quello che si può vedere nella foto. E il cartello detta le regole e ci dà un’informazione fondamentale per capire la natura del luogo dove siamo arrivati. Un giardino dove non ci si può sdraiare, non si può giocare, non si può portare il cane a cacare. L’unica cosa consentita è portare una paletta per rimuovere un’ipotetica merda di cane che però è vietato far cacare nel giardino. L’unica cosa consentita è diligentemente pulire lo sporco che qualcun altro ha incivilmente abbandonato in riva al mare. Le informazioni sono confuse. Ma anche questa analisi può essere considerata un prodotto delle proprie convinzioni. Ciò che è invece chiaro, aldilà di ogni proiezione personale, è che non è un’ordinanza comunale a proibire le normali attività di un giardino pubblico. Bensì una s.p.a.
Perché il luogo è gestito da una holding privata e questo ci racconta molto del mondo a venire, quello degli ultra high net worth individuals e dei loro ghetti fortificati e del resto del mondo abbandonato ad una deregulation falsamente propagandata come naturale, delle enclosures diffuse, della privatizzazione di tutto ciò che si può ritenere legittimamente un patrimonio comune (c’è del resto chi ritiene che la proprietà privata e il mercato siano una cosa naturale e utilizza pericolosamente il termine naturale e i suoi derivati ideologici) e in cui ogni cosa potrà essere considerata merce. Anche l’aria che respiriamo.
Il linguaggio è uno dei famigerati Asini del padrone. Lo si potrebbe pensare l’Asino più importante. Si suole dire che, per una vita tranquilla, esente da disturbi e agevolata dalla contiguità con una presupposta medietà dominante, è bene legare l’Asino dove vuole il padrone. Andrea Betti quell’Asino, non solo non l’ha legato, ma l’ha condotto a un abbeveratoio segreto sincerandosi che l’Asino bevesse. Che bevesse molto e non avesse a patire la sete nel lungo viaggio che l’aspettava. Hanno fatto un lungo giro e con molti anni di anticipo sul risveglio tardivo di molti, in anticipo anche sulla veglia dei pochi, insieme hanno preconizzato e profetizzato molto. Lontani dai luoghi della tecnolingua liberaldemocratica e dai suoi significati di cartone, Andrea e l’Asino sono andati al limite dell’irricevibile, del volutamente ignorato, del non più esprimibile. Decrescita felice e/o obbligata, diritti delle altre Specie e dell’ambiente, crisi economica, stato d’animo della crisi e conseguente retorica della crisi finalizzata all’accettazione passiva di ogni misura atta a disinnescarla. La catastrofe ambientale imminente, la crisi energetica, la deriva culturale, l’ignominia elevata a norma di comportamento pubblico e privato, le difficoltà delle democrazie come noi le conoscemmo o pensammo di conoscerle e il loro ripensarsi all’infinito fino all’impotenza operativa. Quel “nazismo di adesso” evocato in “Poesia Borghese” che possiamo tranquillamente censire in molte delle manifestazioni del contemporaneo. Un libro, quello di Andrea, che non trova conferma della sua bontà nell’avverarsi della sua parte profetica. Un libro che era convincente tredici anni fa ed è convincente adesso. Forte del coraggio di una scelta linguistica che scardina la resistenza della realtà “a bassa risoluzione” e della sua terribile e irresisitibile verve comica, che è propriamente ciò che lo rende altro da un edificante e profetico libro per ammaestrare folle già ampiamente ammaestrate a una terribile Felicità senza riso alcuno. È per me un grande onore e motivo di Felicità aver curato questa ristampa. Buona Lettura (se leggerete la postfazione prima di tutto il resto).
Non è facile gioire per la morte di uomo ultranovantenne soprattutto se a lui e ai suoi compari, un buon numero di compari che hanno avuto la possibilità di terminare la loro onorata carriera occupando posizioni di rilievo nell’esercito, nella federazione calcistica locale, dentro organizzazioni internazionali, trent’anni prima è stato consentito di organizzare uno dei più macabri progetti di ingegneria sociale e culturale della nostra storia recente. Coadiuvati dal silenzio e dall’approvazione della cosiddetta “comunità internazionale”, che consentì alla giunta militare l’organizzazione di un campionato mondiale di calcio propagandistico e funzionale, che aiutasse l’opinione pubblica internazionale e interna a sviluppare un assenso impossibile verso quel progetto di “bonifica” che privò l’Argentina di un’intera generazione di uomini e donne portatori di istanze altre da quelle dei difensori dei valori (e degli interessi) della Società Tradizionale. Manifestazione che solo alcuni tra i giocatori, e per iniziativa personale, ritennero di dovere o poter boicottare (il tedesco Breitner, l’argentino Carrascosa che si salvò dalle inevitabili ritorsioni per il suo rifiuto della convocazione solo per il fatto d’essere il capitano della nazionale e di godere di una immensa popolarità, Crujff e forse nessun altro). Forti dell’appoggio della chiesa cattolica i cui alti prelati ritenevano che la narcotizzazione rendesse “cristiana” la morte di coloro che, dopo essere stati torturati, venivano lanciati nel Rio de la Plata dagli elicotteri.
È difficile gioire della morte di un vecchio dittatore, sapendo quanti suoi silenziosi sostenitori continueranno a scegliere il ritorno all’ordine, là come qua, in questi giorni in cui le parole sicurezza e libertà vengono associate con sempre più frequenza e disinvoltura, in cui il perenne stato d’emergenza limita la libertà di analizzare leggi e dispositivi e squalifica ogni uso linguistico difforme dallo standard liberaldemocratico. Difficile far festa per la morte di Videla mentre lo stato d’eccezione reso norma sembra diventare il brodo di coltura di nuovi processi di de-democratizzazione.
Alla fine di una cena accompagnata dal Bardolino e dal nobile di Montepulciano Simone Molinaroli e Jacopo Andreini, certi di saperlo fare ancora, suonano una poesia. È la quasi inedita “Il Complotto di Maracas” che è stata inserita nella plaquette “Scritti per la Fine del Mondo”.
Riprende col telefono Scott Rosenberg.
IL COMPLOTTO DI MARACAS
In quella stanza dov’eravamo rifugiati,
qualcuno alzò una mano
per chiedere aiuto o salutare.
Qualcuno provò a parlare
in quella stanza
dov’eravamo rifugiati.
Un Complotto di Maracas ci disabituava al silenzio.
Ci parlammo con voce coraggiosa
mentre lui, Quello della Mano,
nello sfondo scompariva
dietro i musicanti. (pensammo che fosse solo la mano a smettere di muoversi e non l’intero corpo)
In quella stanza
si scremarono le ambizioni,
un complotto di conchiglie e analgesìa
ci depistò, sterminò, sradicò,
terminò l’idea di progresso
il respiro e la storia stessa.
Poi tornammo nel silenzio
per cercare Quello della Mano,
che nessuno trovo mai più.
da “Scritti per la Fine del Mondo” (Ass Cult Press, 2013)
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