La Conseguenza di Tutto (1995)

Tra le poesie che ancora mi capita di leggere dal vivo “La Conseguenza di Tutto” è la più vecchia. Risale all’anno 1995, l’anno in cui, con i compagni di Ass Cult Press, cominciammo ad intensificare l’attività dal vivo.

La poesia è stata poi pubblicata nella raccolta “Cani al Guinzaglio nel Ventre della Balena”  uscita per Ass Cult Press nel 1997 e per l’Editore Fara nel 2008.

Non è escluso che la legga stasera a Lerici (SP) allo Slam.

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LA CONSEGUENZA DI TUTTO
La conseguenza di tutto è tutto
& le parole hanno confini desolati
& sceicchi affondano il culo in piscine senza senso
& autostrade morte
& sole a scacchi.
Ma di colpa non ne hanno le parole.
& l’intelligenza è noiosa
& sette miliardi di regnanti di un solo regno
sette miliardi di regnanti pieni di dolore
si apprestano alla carneficina
come a una merenda
su un ciglio della statale del Brennero.
La conseguenza di tutto è tutto
& l’addestramento all’orrore
inizia di mattina al bar per gli autodidatti
Dopo è per tutti offerto
dalla tele-promozione di napalm e cecchini
& l’esplosione nucleare
non è che un piacevole diversivo
per atleti allenati alla catastrofe
e ai buoni sentimenti.
& i poeti si masturbano copiando versi copiati
& altri cacano con Celine
i residui della sbornia e sangue cerebrale.
& i veri poeti rubano un carroarmato
e lo lanciano nel traffico
morendo poi di pistola.
& i veri poeti rubano il ritmo
a un mezzogiorno stremato
all’ombra di un piccione.
La conseguenza di tutto è tutto
sui confini delle parole
desolati agglomerati
_________di tedio e frenetico
__________________rinnovarsi.
& non capita spesso
che un bonsai s’inventi una foglia
che un virus sconosciuto
_________s’avventi sull’umanità
________M A N I F E S T A N D O S I
_________in
__________una
_____________malattia
che i dottori disperati chiamano
___________G I O I A.

 

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Simone Molinaroli | Cani al Guinzaglio nel Ventre della Balena | (Poesie 1994-2000) | Fara Editore

MAGGIO ROVENTE PORTA IL CONTO – inedito del 2003

Una poesia da una raccolta inedita che medito di far stampare entro la prima metà del 2016.

 

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MAGGIO ROVENTE PORTA IL CONTO

Maggio rovente porta il conto
innesca il timer di un conto rovesciato
al cui termine attesa e paura,
deluse dallo scherzo,
si suicidano brillando nell’aria sgonfia
come una canzone dei Pixies.
                                                    [oh, Ed is in a better way]
Maggio rovente ha la pistola
colpo in canna e niente da perdere
fredda il ragioniere incarognito
del pensiero transitorio
e poi ci osserva
con lo sguardo che segue
i discorsi esaustivi.

 

Ich bin ein Provinzler
Ich bin ein Provinzler

Prendere Posizione (o anche Popolo fai schifo)

Verba volant et scripta manent. Un tempo, come ci ricorda Umberto Eco, si poteva parlare liberamente da imbecilli al bar, e anche fiaccati nel corpo e nelle meningi da camparini, spritz, negroni di pessima fattura e amari col ghiaccio, lasciarsi andare a dichiarazioni esagerate, gagaronate umilianti, diventare talvolta molesti fino al punto di provocare incidenti e tafferugli e poi, davanti alle recriminazioni e ai tentativi di rivalsa di chi si sentiva offeso, si poteva sempre far appello a quell’ubriachezza che ci aveva privato della capacità di intendere e ci aveva trascinati ben oltre il volere consapevole e le capacità di gestione psicofisica.
Questo in un paese cattolico, dove la minorità originaria supposta dell’uomo è la base sui cui si struttura il potere ai suoi livelli più reconditi e vitali, non si nega a nessuno. Perdonare lo sbaglio altrui è proiettare in un futuro certo l’ambizione al perdono per il proprio. Al massimo era questione di prendere o dare due manate. Nel paese dove l’amministratore eletto viene scoperto a spendere soldi pubblici per alimentare il vizio (o la virtù, ognuno giudichi da sé) di andare-a-travoni, e invece di chiedere scusa agli elettori e ai contribuenti, chiede scusa al Papa, alla propria famiglia e si ritira nell’eremo, ognuno è certo che tutte le bischerate verranno sepolte dall’oblio. Tutto si svolgeva nel territorio neutrale dell’etere, erano suoni,  talvolta le Cazzate erano sepolte in diretta dai lazzi dei compagni di merende, dagli ohhhhhhh corali che invitavano ad alzare il tiro, ad allungare la trota, a rinfocolare i rancori. Erano solo parole. Non sono rimaste prove. Un imbecille era tale per chi aveva avuto la fortuna di vederlo dal vivo. Per tutti gli altri poteva essere davvero tutto il resto. Un grande pescatore, un grande trombatore, una Grande Fava, una ex mezzala del Botafogo o dell’Atletico Tucumàn.
Adesso si scrive. Talvolta si risulta imbecilli di fronte al mondo intero. Lo si mette per iscritto e tutto rimane negli archivi segreti del grande dragatore dei dati personali. Lui, il Grande Dragatore, è veramente l’unico che sa chi siamo. Noi ce ne siamo dimenticati. I social networks sono il teatro dove questo grande sputtanarsi ha luogo.
I più buffi, in questa grande arena per polemiche e polemisti, son quelli che nell’attaccare il proprio l’interlocutore per le sue posizioni ideologicamente discutibili in realtà,  forse per il troppo entusiasmo nel poter liberamente premere la tastiera, utilizzano espressioni riconducibili esattamente a quello stesso orizzonte ideologico. A volte pure oltre. Oltre l’orizzonte. Ed è tutto scritto. Un immenso campionario del “falso ideologico” e della schizofrenia. Ma non tutti sono imbecilli. Anzi. Tutti molto acculturati, gente che padroneggia la lingua e che sa farne uso, che si è abbeverata a lungo al grande abbeveratoio della scuola dell’obbligo, ma che ogni tanto, chissà se veramente per questioni di entusiasmo, tradisce la propria reale inclinazione fino a quel momento accuratamente nascosta.

Questo mi riconduce a ciò che pensai la prima volta che sono entrato nella sede di un partito politico. Avevo quindici anni e capii subito cosa significa posizionarsi per convenienza. Provai subito quella sensazione, che poi mai mi ha abbandonato negli anni, che ho provato ogniqualvolta ho avuto a che fare con sindacalisti e politici. Quasi tutti quelli che si danno alla politica scelgono principalmente un luogo dove c’è posto. Dove avanza uno sgabello, una stampante, una funzione, un ruolo. Dietro le convinzioni di facciata si nasconde quasi sempre qualcosa di inconfessato.

Mi ha mosso a scrivere questo pezzo l’aver seguito un acceso dibattito su Facebook. Un mio contatto affermava di aver votato Tsipras e Salvini. Si scatena la bagarre ed è un florilegio di tutti luoghi comuni del naziprogressismo corrente. Fino allo Zenit della contraddizione quando uno, che fino al commento precedente continuava a insistere sulle tematiche care alla sinistra moderna, cioè inclusività, diritti delle minoranze, beni comuni, immigrazione, ha affermato che “il Popolo fa schifo”. Il popolo fa schifo. Lo diceva anche Alberto Sordi nell’Anno del Signore: “Popolo, sei ‘na monnezza!“. Era però fraticello e non intellettuale di sinistra.
Popolo fai schifo. Ricordatene!
dc

I treni di giugno…

I treni sono pieni di genti imprigionate dentro una tristezza che ingiustamente ha una ricaduta sulla qualità della vita altrui. Rettifico: sui treni pieni ci sono anche genti imprigionate nella propria tristezza a cui danno fastidio le biciclette pieghevoli e il chiacchiericcio delle ragazzine che cimbràccolano che, appena terminato un turno di lavoro, fanno quasi, sottolineo quasi, allegria. E poi si alzano sdegnate, si lasciano andare a voce alta a considerazioni sull’impossibilità di stare in mezzo a certa gente, farfugliando il proprio sdegno nella speranza che qualcuno lo tenga in considerazione e si allei in un ammutinamento d’élite che evacui dal convoglio i giovani studenti, i lavoratori, i bighelloni, le genti malvestite, il sudore e la fatica.

(la signora è sui cinquanta anni, piacente, vestita in modo elegante, dà segni di uso di psicofarmaci, è indubitabilmente esaurita, non riesce a controllare la sua mimica facciale, appena mi siedo, non accanto a lei, non davanti a lei invadendo lo spazio che gli studi di prossemica applicati al trasporto ferroviario le riservano, bensì nel posto libero davanti al posto libero accanto a lei, lato corridoio per controllare che la bicicletta non ostruisca il passaggio o rechi danno ad alcuno, la signora comincia a dare segni di nervosismo, guarda accigliata la mia bici pieghevole, osserva incredula la mia tenuta estiva da lavoro e il copioso sudore risultante di sette ore e ventisette minuti di stabilimento e di una pedalata rapida necessaria a prendere il treno in tempo, esprime disgusto, non favella se non un leggero borbottio, se volesse essere mandata affanculo e velocizzare la questione non avrebbe che da chiedere, nei sedili appena dietro di lei siedono quattro ragazzine che uscite da scuola fanno un po’ di chiasso, altri studenti parlano dei loro esami, suona qualche telefono, un paio di giovanissimi spìppolano annoiati coi cellulari,  le ragazze aumentano il volume del loro giovanile ed entusiasta ridere e questo, probabilmente, per la signora diventa troppo, uscita di casa convinta di viaggiare in prima classe sull’Orient Express nel 1913 con Agatha Christie e l’ispettore Poirot si è invece trovata nel Treno Regionale 3062 in servizio sulla tratta Firenze – Viareggio. Poveretta…)

Ma come potrà essere ottenuta la considerazione dal momento che solitamente sul treno si è circondati solo da certa gente? Che il treno serve in gran parte certa gente, mescolata, non selezionata, vociante e stropicciata, che va e/o torna dal lavoro, dalla scuola, tutti sudati, qualcuno allegramente, qualcuno meno, tutti in attesa di arrivare o tornare nei luoghi del proprio stare nel mondo. Ed essi, gli infastiditi, troveranno nel loro fuggire solo altri vagoni con altro chiacchiericcio, altre persone sudate, altre biciclette e inoltre avranno preso pure di bischero.

Così come successo alla signora di questo episodio. Che nell’andarsene farfugliando contro  tutto e tutti viene seguita da una scia di simpatiche prese di culo.

Ma non è sola la signora dell’episodio. Ne leggo/sento a decine sui social network e alla sera al caffè biasimare gli occupanti dei treni. Sono gli stessi che abolirebbero il diritto di voto, che odiano il traffico mentre guidano l’auto e sono il traffico e che dunque abolirebbero il diritto alla guida, che viaggiano e odiano arrivare nei luoghi dove già ci sono gli altri (Jovanotti ne ha dato un esempio raccontando nel suo ultimo libro della delusione provata nel giungere in Terra del Fuoco e trovare altri turisti. Bastava che rimanesse a casa ed evitava agli altri la delusione di vedere lui…) e dunque abolirebbero il diritto di viaggiare, che prendono il treno ma pretendono un vagone riservato. Quelli che vorrebbero distinguersi dall’uomo comune, i praticanti dell’edonismo di massa, frequentatori di luoghi esclusivi pieni stracolmi di altri edonisti convinti di distinguersi dagli uomini comuni.
Immagino alla fine delle loro giornate votate alla distinzione una delusione e una disperazione senza rimedio. Proprio come quella che ha provato Jovanotti a Ushuaia.

fonte dell’immagine: Wikimedia Commons

autore: Cuttergraphics

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Coloro che credono di avere assolutamente ragione

Nel suo libro intervista/confessione La notte sarà calma Romain Gary affermava di essere “contro tutti coloro che credono di avere assolutamente ragione”, e attribuiva la paternità dell’espressione ad Albert Camus.
Mi coglie la curiosità e cerco il testo da cui può provenire la citazione di Gary. E trovo una serie di articoli di Camus, che non conoscevo, usciti per Combat e raccolti nel 1948 sotto il titolo Ni victimes Ni bourreaux. Camus scriveva esattamente che “Nous etouffons parmi les gens qui croient avoir absolument raison, que ce soit dans leurs machines ou dans leurs idees – Noi soffochiamo in mezzo a persone che credono di avere assolutamente ragione, sia che si tratti delle loro macchine o delle loro idee”. Ciò che soffoca non siamo esattamente noi, parlo al plurale per simpatia verso l’autore, quanto il tentativo, quasi sempre impedito, di far valere le ragioni di un discorso altro, se non di significato diametralmente opposto, almeno strutturalmente diverso. Metodologicamente non riducibile all’ingranaggio della lingua di plastica utilizzata dal gruppo dominante (ma io parlo dei tempi di ora, non dei tempi di Camus. Dei nostri tempi di moderazione, liberaldemocrazia, tecnofinanza, debito insanabile…). Al momento attuale, alle idee e alle macchine, potremmo aggiungere il credo religioso, i gusti letterari, i diktat delle commissioni tecniche e la fede calcistica, tanto che si può presumere che anch’essa, al pari di quella religiosa, finirà per non poter venire irrisa o messa in discussione, né sul serio, né per scherzo. Che per dire “Juve Merda” si correrà il rischio di essere assassinati (in realtà è già così, ma sospetto che il calcio non c’entri davvero…). Che scomparirà del tutto l’ironia e la sua divisione veramente utile, l’autoironia.
Si diceva di quelli che credono (non pensano) di avere sempre ragione. Una schiera composta in larga parte da quelli che ritengono valide le proprie argomentazioni solo e soltanto a causa di una scelta ideologica e/o una scelta di convenienza, di posizionamento interessato. Che avendo scelto una parte non hanno mai ritenuto necessario esaminare accuratamente le proprie posizioni, che sono poi quelle fornite con la bandiera, l’elmetto e il cestino per il picnic.
Preferiscono quindi il denigrare al confutare. Condannare sommariamente ogni difformità anche lieve dal proprio sistema di pensiero, presunto o reale, ben padroneggiato o solo mutuato in superficie. Aderiscono senza mai discutere, se non quel poco che si ritiene di potere per salvare le apparenze. Muovendo flebili obiezioni che siano riconducibili alla gamma di differenze istituzionali, quelle tollerate dal pluralismo di facciata di ogni sistema di potere democratico. I grandi sostenitori dell’acriticità. E per questo si sentono autorizzati ad ogni aberrazione linguistica, a tutte le forme di violenza verbale previste dal manuale della spregiudicatezza. Denigrare sempre. Mai confutare.
Eppure denigrare senza confutare è un po’ come traccheggiare senza trombare.
Un po’.
L’altro po’ come essere stupidi.
Ni victimes Ni bourreaux - Albert Camus
Ni victimes Ni bourreaux – Albert Camus