L’intercambiabilità dei candidati – Minchiatella Poetica

Non che lo ritenga un capolavoro di composizione, però questo è un testo che ho scritto dopo aver visto la comparazione fotografica tra la frangia conservatrice e forzaitalica da santa ciucciapiselli alle serate bungabunga e i ciuffi colorati da sindacalista tuttadunpezzo che pensa solo ai diritti delle minoranze, dei fintoinfortunati, alle cene pagate, ai congressi blindati e agli interessi degli amicucci che connotano il prima e il dopo politico della candidata consigliera abruzzese che non nomino.
Un bel capolavoro, questo sì, di trasformismo.

Comunque è stata scritta al lavoro. Ho deciso di non rimaneggiarla per conservare la sua verve originaria. Ho cambiato di posizione a due parole che non mi ero accorto facevano la rima. E nella Minchiatella Poetica la rima è importante.

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MINCHIATELLA POETICA
DELLA CANDIDATA INTERCAMBIABILE

L’intercambiabilità del candidato
Una calotta di capelli fatta al fotoscióp
E la mite conservatrice frangia
In ciuffi da brava progressista si càngia.
Amante del diverso e dell’uguale
Dell’uguale e del diverso
Dalla pazienza di chi legge dipende
Quante volte ripetere il sesto verso.

 

 
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Pay with a Poem – già fatto nel 1997 a Rimini

Pagare un caffè, oppure una birra, oppure una spuma bionda, oppure un cocktail (solo per quelli che scrivono poesie più pregiate) al bar con una poesia: se aspetti che qualcuno lo stabilisca per decreto non ha più lo stesso valore e nemmeno lo stesso prorompente fascino rivoluzionario e provocatorio. Pagare invece con la poesia dove non si potrebbe, dove non è attesa o prevista. Questo è dare valore alla poesia, costringere chi se la piglia perlomeno a leggerla per capire se ha fatto un buon affare. Sempre che questo dargli un valore di moneta sia considerabile un valore. Mostrare, se mai ne abbia bisogno, le sue ragioni. Perché la poesia abita molto più spesso dove non è invocata che dove invece è nominata spesso, ma il più delle volte a sproposito. Ad esempio nei caffè letterari. Ad esempio nei portali per addetti ai lavori.

Non è per gagaroneggiare e voler sembrare quello che è arrivato prima, che in realtà, come si dice a Pistoia, siamo arrivati tutti èsimi, ma solo per dire che con la poesia si paga, quando è possibile, dove essa non è attesa. Dove la poesia sia frattura, discontinuità, innesto insensato. In quei luoghi dove si è invitati a pagare con la poesia la poesia è nulla. Perde anche il valore di moneta di scambio che attribuito alla poesia è un valore solo se inatteso. Se sorprendente, se predica ai non convertiti e non, come scrisse Andrea Betti, predicare il piscio ai reni e l’amore agli innamorati.

Comunque io e David Napolitano pagammo alcune birre con due poesie. Doveva essere alla fine degli anni novanta. Il fatto che non mi ricordi esattamente l’anno e in quale delle occasioni in cui Io e David Napolitano ci siamo trovati a Rimini è indizio che ci si trova davanti, o dentro, all’episodio di una vita e non semplicemente della ricerca di un riconoscimento ufficiale all’interno del mondo delle lettere. Insomma, andammo a Rimini per cercare un editor di una casa editrice considerata al momento cool. Editor il cui nome ci era stato indicato da un comune amico che lavorava nel settore. Andammo al Block 60 per la presentazione di un libro di una giovane scrittrice che a giudicare dalla promozione che l’editore aveva messo in campo forse veniva pensata fenomenale, ma di cui in realtà si perse ogni traccia all’istante. Parlammo con l’editor, lasciammo ciò che dovevamo lasciare, parlammo del nostro lavoro, ma anche di quello degli amici, una vocazione, quella dell’altruismo, decisamente antieconomica in un ecosistema popolato perlopiù da ambiziosi e opportunisti. Lasciammo comunque all’editor una serie di dattiloscritti di tutti gli autori di Ass Cult Press. L’intento era quello di proporre un’antologia. La missione era terminata e dunque cominciò il resto.

La serata si trasformò poi in tutt’altro. Ed il tutt’altro era la nostra vera vocazione. Il tutt’altro da cui discende la letteratura se non vuol essere solo letteratura come scritto nell’epigrafe del primo capitolo di “Primavera Nera” di Henry Miller. What is not in the open street is false, derived, that is to say, literature. Un lungo vagabondare per bar, locali, incontrando persone mai conosciute prima, mai preventivato di conoscere. L’unica sicurezza di quella serata era il biglietto per il treno del mattino.

Gran parte della serata la passammo senza soldi. Incontrando persone di inaspettata generosità, fino a ritornare, a fine serata, in uno dei bar dove eravamo stati quando ancora avevamo della moneta da spendere. Ci avanzavano i biglietti del treno e i soldi per due caffè. Seduti al bancone ordinammo i due caffè e ci mettemmo un po’ di tempo per finirli. La titolare del locale ci chiese se avessimo intenzione di bere altro e noi rispondemmo di sì, ma che i soldi bastavano per i due caffè.

Dietro il bancone c’era un tizio americano, dalla confidenza con cui si muoveva nello spazio si sarebbe detto un amico della titolare,  stazionava lì dietro a farsi drinks e a elargire simpatia e quando sentì che non avevamo soldi mise la mano in tasca, ne trasse diecimila lire dell’epoca e, senza neanche chiedere, offrì due birre. Seguirono altre birre che alla fine David si offrì di pagare con due poesie. La transazione andò a buon fine e tutti vissero felici e contenti. Qual’è la morale della storia? Non c’è una morale perché è una cosa successa davvero. C’è però che a far poesia e mutuare strategie promozionali sbagliate si finisce per diventare le strategie per abbandonare la poesia e la vita. Meditate.

Questo però è materiale per altre riflessioni.

Dattiloscritto originale di "No Mercy" di David Napolitano
Dattiloscritto originale di “No Mercy” di David Napolitano

Festival Culturali e Barbarie

Premessa: avevo scritto la prima parte su facebook in concomitanza con i lavori parlamentari finalizzati all’elezione dell’ultimo presidente della Repubblica Italiana (che io ho definito più volte l’Ultimo Presidente). Ho poi continuato in seguito e dunque questo scritto è diventato assolutamente inattuale.

Più che le manfrine concomitanti con l’elezione dell’Ultimo Presidente della Repubblica, mi fa triste ripensare alle parole del procuratore Gratteri che ho ascoltato ieri sera in radio. Parole in cui si udiva nitidamente, malcelata, una venatura di disperazione. Disperazione nel dover raccontare dell’impossibilità di una azione di contrasto al crimine organizzato e dell’assenza, per convenienza diffusa, condivisa, trasversale, di politiche culturali volte alla formazione di una cittadinanza consapevole.

Non è necessario che io aggiunga niente a quanto detto da Gratteri, spiegando le ipotetiche conseguenze di quanto da Gratteri stigmatizzato. Sappiamo tutti da molto tempo cosa significa tutto questo che ci sta succedendo intorno e che talvolta vorremmo contribuire ad arrestare, ma che non si riesce ad arrestare. Molto spesso non riusciamo nemmeno a calcolarne esattamente la portata e ci chiediamo come sia stato possibile che solo i peggiori si siano ritrovati a dover decidere e deliberare, sperimentiamo quotidianamente l’avvilimento che deriva dall’impotenza operativa e si finisce a riflettere sulla necessità del non fare che accomuna pensatori di tutti gli orientamenti1)Soltanto tenendo presenti le mie ultime letture potrei indicare Alain Badiou e Julius Evola. Ovviamente per diverse ragioni..

Lo sappiamo esattamente come Pasolini affermava di sapere chi erano i responsabili del golpe, delle stragi, della strategia della tensione. Esattamente come lui lo sappiamo, ma non abbiamo prove. Lo sappiamo e basta. Ma a  differenza di Pasolini abbiamo un unico interlocutore. Noi stessi. Ci parliamo di una cosa che sappiamo per cercare di capire come è meglio fare per ridurre quello scarto che ci divide dal centro dell’azione politica. Che sembra al momento impenetrabile e che al momento sembra bene non penetrare.

E voi Pezzi di Merda che vi fate alfieri del realismo e della spregiudicatezza un giorno dovrete renderne conto. Prima che agli altri a voi stessi. Perché ci sono mostri che, una volta generati, non possono più essere affrontati.

Si può quindi peggiorare perseguendo apparentemente il miglioramento. Peggiorare non in senso assoluto quanto in relazione proprio ai parametri che spingono l’utente medio, che li condivide e li coltiva, a tentare la carta dell’apparente miglioramento.

Ad esempio cercando di convincere il prossimo di essere un sincero progressista, pluralista, liberale, pieno di fiducia nelle umane possibilità, sostenitore del capitalismo, del multiculturalismo, delle differenze che arricchiscono e al contempo tradire una disposizione d’animo, un uso linguistico in aperto contrasto con quel tentativo. Esempio: un militante di una formazione politica rivale, una formazione populista, viene ritratto in una posa comica. Le sue idee ridicolizzate sulla base del suo aspetto fisico. Ma la riduzione dell’idea altrui alla deformità fisica, e necessariamente morale, è appena un passo prima la legittimazione dell’eliminazione fisica. Tutto questo è pane quotidiano per il progressista d’oggi. Che alla bisogna si appropria di argomenti che sembrerebbero non appartenergli per poi disconoscerne l’uso subito dopo.

Immagino che il narrarsi progressista faccia stare meglio. Sia consolante per chi segretamente alimenta idee, e talvolta pratiche, innominabili. Perché il progressismo, come il suo cugino il Riformismo, è l’iso 9000 della presentabilità politica. La norma dell’accettabilità svincolata da una reale comprensione reciproca.

Chiariamoci, essere progressisti non è la condizione sine qua non della presentabilità politica. Si può non essere progressisti. Esserlo stato, ma adesso non più. Non essere più progressisti perché si ritiene di aver raggiunto quegli obiettivi che ci si prefiggevano nella propria azione politica, al cui raggiungimento si pensava di voler contribuire. Semplicemente perché si è cambiata idea. Si può non essere mai stati progressisti. Non tutti quelli che hanno una idea del modo sono di sinistra. Lo studio non conduce necessariamente alla sinistra. Non necessariamente a questa sinistra italica che governa con il proprio fantomatico antagonista. Eppure è un pregiudizio radicato nella sinistra italiana quello che fa pensare che non esista altra cultura, altro mondo, altra narrazione aldilà di quelli che gli appartengono o che rivendica come propri.

Si può quindi peggiorare perseguendo apparentemente il miglioramento. Ad esempio, frequentando i festival culturali dove un ristrettissimo numero di oratori è convocato a parlare di un ristrettissimo numero di idee ad uso e consumo inconsapevole di un gran numero di persone intenzionate a non finire i propri giorni in preda all’ignoranza e allo sgomento derivante dal non riuscire a comprendere il mondo circostante. Ma come pensare di comprendere un mondo reso astutamente complesso e complicato con quel piattino di ideuzze insipide, gratificanti e consolatorie che offrono i festival culturali?

Tutto inutile.

Il festival culturale è come il credito al consumo. Se quest’ultimo dà l’illusione di non essere poveri, procrastinando il momento del saldo a un termine sempre più lontano, il primo dà l’illusione di non essere ignorante. Ignorante della specie peggiore. L’ignorante che non vuol far credere alla propria ignoranza, che vuol vivere al di sopra delle proprie possibilità intellettuali e cognitive (così come l’uomo debitore sceglie la schiavitù di una vita al di sopra delle possibilità economiche). Non realmente interessato alla fatica e all’impegno di uno studio serio, commisurato alle proprie possibilità, ma pieno di quella volontà che ampia anche le possibilità di partenza. L’ignorante che è interessato solo all’outlet delle idee. Ma il mercato delle idee è come il mercato delle verdure. Dipende molto dalle strategie di approvvigionamento. Certe idee finiscono per scarseggiare. Contro alcune si fanno campagne denigratorie.  Quelle più care finiscono per essere quelle meglio presentate. Che talvolta finiscono per marcire alla svelta. Magari sono state in freezer, non sono idee fresche.

Sulla scorta dunque di questo inestimabile patrimonio fatto di 4/5 idee si cerca di resistere allo sgretolamento del mondo edificato in secoli di faticosissimo lavoro manuale, sforzo intellettuale, elaborazione tecnica.

Ma non si resiste.

Il mondo si sgretola.

La barbarie ri-avanza.

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Ho usato una nota non per darmi arie accademiche, ma per testare il plugin che automatizza le note a piè di pagina.


GranTeatrodiOklahoma55

References   [ + ]

1. Soltanto tenendo presenti le mie ultime letture potrei indicare Alain Badiou e Julius Evola. Ovviamente per diverse ragioni.

Il Blaghèri | una poesia sul Politico con la ramazza

Nella notte tra mercoledì 4 e giovedì 5 marzo, Pistoia è stata colpita da un fortunale violentissimo che ha causato danni ingenti e sgomento inedito nella popolazione disabituata a questo genere di eventi atmosferici.
Inutile ricordare che le polemiche tra politici sono cominciate subito. Sapete tutti che succede sempre così. Con tempismo sciacallesco i professionisti della dichiarazione, i richiamatori di popolo all’unità, quelli che la disgrazia ci rende più forti, hanno cominciato all’istante il loro intollerabile spettacolino.
Ho partecipato a uno scambio di battute sui social network, dove una giovane promessa della politica locale veniva presa per il culo a causa del vezzo di essersi fatto ritrarre con la scopa in mano nell’atto di ramazzare due detriti. Tutto questo mentre la città in ginocchio cercava di rendersi conto di qualcosa di assolutamente inedito.
Un peccato veniale. Una cosa normale in quest’epoca di pupazzi. Una cosa che, se è lecito pensare che il protagonista faccia consapevolmente per cercare consenso, è giusto stigmatizzare ironicamente. Ed è giusto che nel gioco della spettacolarizzazione provinciale dell’impegno anche il protagonista accetti di buon grado.
Per uno che ramazza, altri che ridono.
Ieri, durante il turno di lavoro, ho pensato di dedicargli una Minchiatella Poetica. Non necessariamente a una persona in particolare. Ma a tutti quelli che condividono questa caratteristica di voler trarre un guadagno personale dalle disgrazie altrui, che usano strumentalmente le catastrofi per mettersi in buona luce davanti all’elettorato.
È un sonetto. L’ho pensato mentre guidavo lo Stand-on Electric Pallet Truck. L’esito sarà quindi commisurato.
Il titolo viene da un modo di dire che spesso usava mio padre. Penso derivi dal francese Blagueur. Una derivazione che non ho mai  sentito usare da nessun altro se non da mio padre, che l’usava spesso per denominare persone use a parlar molto senza quagliare granché.
Chi si riconoscesse nelle mie parole, chiunque egli sia, sappia che stavo pensando proprio a lui. Ma non si offenda. Oppure si offenda pure, ma ci ripensi.

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IL BLAGHÈRI

Meglio avrebbe fatto e gran figura
Chi mai tenne motosega nelle mano
A non fare gran proclami e a parlar piano
Allor che lo paese soffre gran sciagura.

Ché bene non è far finta di aiutare
Richiamare all’armi molte genti
Che si pensano sciocche e prepotenti
E sempre molto dire e niente fare.

Poteva ad esempio andare con l’accetta
E serbar lo fiato e spendersi in sudore
Per rimuover lo Gran Pino collasato

Sulla soglia de lo grande caseggiato
Da gran tempo or sono quarant’ore
E liberar lo passo alla vecchietta.

 

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Abbasso la Juve (o Il Manuale del Gol)

Qualche mese fa ho ritrovato il “Manuale del Gol” di Vezio Melegari a casa di mia madre. Una pubblicazione su cui da bambino passai innumerevoli ore.  E dopo averlo sfogliato nuovamente, dopo più di trentacinque anni dall’ultima volta, mi vien di dire che non fosse per caso o per errore.
I ritrovamenti non sono tutti uguali.  E questo “Manuale del Gol” ha aperto un grande bagaglio di ricordi, tutti significativi.

In una ipotetica classifica di ciò che è stato significativo nell’infanzia lo collocherei sullo stesso piano del Grande Atlante Geografico De Agostini (l’edizione con le bandiere in copertina) e al film “L’Uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford.
Hanno contribuito, tutti insieme, a generare una bella parte dell’immaginario infantile di chi scrive e introdotto il concetto di leggenda e di giustizia nella sua ancora acerba Weltanschauung.

Ho viaggiato molto per nazioni e stadi. Sono stato a partite epiche rigiocate mille volte e grazie alle illustrazioni di Carmelo Silva sembrava di esserci stati davvero. Anche se rimase per molti anni un mistero la reale dinamica del gol di Sandro Mazzola alla Svizzera durante un’amichevole nell’ottobre 1970. Le parabole tratteggiate da Silva, che esemplificavano la traiettoria del pallone,  non riuscivano a rendere giustizia alla prodezza tecnica di Sandro Mazzola poi osservata più avanti in video.

Quindi per il sottoscritto la fronte a scalino di Puricelli era realtà, Hector Puricelli che era un grandissimo colpitore di testa, ma non quando era in Uruguay, prima di essere acquistato dal Bologna. Ed è lì che casualmente scopre di essere un grandissimo colpitore di testa. E viene chiamato Testina d’Oro. Così come le bende legate in fronte agli stopper e ai centravanti, la geografia economica di stati adesso nemmeno più esistenti, l’URSS, la Cecoslovacchia, L’Alto Volta, la Rhodesia. E poi la geografia economica mutata degli stati rimasti. Quelle belle linee di confine tracciate col righello alla conferenza di Pieve a Nievole o di Sanremo, che adesso gli uomini incappucciati rimettono in discussione insieme alla sicumera di chi per quasi cento anni credette alla versione di chi le tracciò.

E inoltre, il libro è stato pubblicato nel 1974. A me deve essere stato regalato intorno a quegli anni. Nel 1976 ho imparato a scrivere e dunque ciò che vergai con incerta calligrafia maiuscola sul frontespizio del libro dev’essere una delle prime cose che ho scritto in vita mia.

“ABBASSO LA JUVE”.

Avevo già deciso da che parte stare. E non me ne vogliano gli amici juventini. Fu mano innocente di bimbo a vergare lo slogan.

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