Una poesia scritta per il progetto “La Fine del Mondo” e che è poi stata inserita nella plaquette “Scritti per la Fine del Mondo”.
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ILLUMINAZIONE nr.1
Se sei bravo
se sei bravo e impedisci ai tuoi neuroni
la trasmissione delle sordide cazzate
che dichiararono guerra alla quiete
che adesso potrebbe illuminarti.
Se sei bravo
se sei bravo e cancelli dal tuo corpo le ossessioni
in fondo alla bottiglia di vodka
potrai vedere il silenzio che ti ha preceduto
e indovinare il vuoto che ti seguirà.
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da “Scritti per la Fine del Mondo”
di Simone Molinaroli (Ass Cult Press, 2013)
Il mondo della letteratura è pieno di gente che si autoaccredita. Pieno di persone che, se quella miserabile abitudine di imputare all’ignoranza altrui le proprie disgrazie non la ritenessero una prerogativa di calciatori falliti, delle microstelline televisive e dei politici locali, ti griderebbe in faccia tranquillamente “LEI NON SA CHI SONO IO!”.
In effetti non si sa chi sono questi scemi che si autoaccreditano. Tra cui il sottoscritto e tutti gli altri che vorrebbero far parte di un insieme ridotto, di una Elìte influente e indiscutibile, seduta in assise a un tavolo da cui pontificare verso un uditorio di silenziosi interessati. Tra cui anche gli accreditati ufficiali ed ufficiosi di ogni camarilla, di ogni loggia letteraria, di tutte le bande di leccaculo, cacaminchia, ingrati di corta memoria.
Ma più che il crescente numero di scrittori, sedicenti e aspiranti, affermati e in via di affermazione, mi sembra più preoccupante il crescente numero di coloro i quali, in quel grande insieme in crescita, affermano convinti, animati da una spocchia ridicola alimentata dalla scarsa consapevolezza, che gli scrittori sono troppi. Ma nessuno mai che alimenti dentro di sè, anche solo un poco, il dubbio legittimo di essere parte dell’escrescenza, del pleonastico, dell’insulso, del non significativo.
È la variante letteraria dell’edonismo di massa. Tutti gli uomini comuni che cercano di distinguersi dal luogo comune, senza peraltro riuscirci. Convinti però di esserci riusciti.
Nella foto, una mia Olivetti fotografata da me medesimo. Nessun problema di copyright
Highlights della settimana appena trascorsa sono stati: l’apertura della bottiglia di Tignanello (in foto) che ha riservato momenti di piacevole compagnia e condivisione alla famiglia riunita in giardino al tramonto, la lettura di un classico del libertarianesimo “Anarchia, stato e utopia” di Robert Nozick e la decisione di restituire in assemblea la tessera del sindacato (cgil). Dopo molti anni di convinta adesione e alcuni di riflessioni amarissime sulle sorti del più grande sindacato italiano che molto ha contribuito al cambiamento del nostro paese, ma che ha rinunciato alla possibilità di poterlo/volerlo fare nel presente. Per l’occasione ho composto questa Minchiatella Poetica. La Minchiatella Poetica del Sindacato.
Ci sono due/tre toscanismi che mi sono permesso principalmente perché sono toscano, perché si prestavano al tono scanzonato e perché mi facevano gioco (altro toscanismo) nella composizione. La prossima minchiatella ne conterrà di più.
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C’eravamo tanto amati
Non ricordo come fu
Ero iscritto al sindacato
Una volta ormai non più.
Tutti mesi c’era la quota
da pagare al patronato
per le cene ai funzionari
E la ghenga dietro a rota.
C’eran sempre l’assemblee
coll’assenso pilotato
si votava il già deciso
meccanismo collaudato.
Al dissenso ogni qualvolta
Riservato era lo scherno
Del furbetto delegato
Dal pecorume spalleggiato
Tutta gente il cui governo
È una semplice equazione
Una sedia, un privilegio
Un ufficio, un’esenzione.
Ma era nato il sindacato
Perché anche il poero avesse voce
Perché potesse dir la sua
Sopra quanto era pagato
Su quante ore pattuire
all’ufficio o allo stanzone
uomo o donna non importa
e di lavoro non morire.
Però adesso io più non pago
Non mi presto a questa spesa
per sentire bischerate
Dette con la voce accesa
Voce accesa di Gran Pazzo
Per coprire la magagna
Di menare un gran torrone
E non combinare un Cazzo.
Ri-Pubblico questo memorabile testo di Andrea Betti proprio adesso, in questi giorni in cui c’è andato di moda scavare a fondo nell’inchino della Madonna al capoclan. Qualcuno avrà scomodato il ritardo culturale, molti si saranno sentiti sicuri tra i morbidi guanciali del loro progressismo alla buona, certi che le Madonne aborriscano essere portate sul baldacchino davanti alla porta di casa dei malavitosi. Nessuno che invece si concentri sul contenitore che le madonne e la mafia condividono.
Ne “La fiera dell’urto di vomito”, testo scritto sul finire degli anni novanta del secolo scorso, Andrea Betti traccia uno scenario più che possibile e più che reale di una festa di paese della laicissima, comunista un tempo, democratico/progressista al momento, Toscana. Terra di sagre, bestemmie roboanti, fagioli rifatti e crostini neri, terra in cui fu inventata la faziosità e dove imperano l’invidia, l’avarizia, l’ignoranza e un sistema di potere implacabile ed arrogante. Ove le madonne immaginarie si inchinano davanti alla casa del dirigente, perché la madonna non è mai nemica del capo esattamente come gli intellettualucci organici non sono mai in contraddizione col potere, anzi ne suffragano ogni mossa con la loro debole, quindi giusta, voce.
Questo ed altri testi di Andrea Betti sono stati pubblicati nel volume “La Felicità Terribile/Zucchero Spinato” uscito poter Ass Cult Press lo scorso anno.
Chi lo volesse mi scriva all’indirizzo alla voce: contatti.
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La Fiera dell’Urto di Vomito
Benvenuti alla fiera dell’urto di vomito,
dove i manifesti son schizzi d’amore e le lotte dei Galli e le scommesse, per sciccheria, si fanno in francese avec un sanglant chemi-sier de Gautier le blanc chemisier, maintenant rouge
Rien vas plus – il giuoco è fatto, la beccata nella pupilla avversa, le creste macinate nell’agone
e l’imbonitore fava, dietro al bancone de’ panforti e de’ sanguinacci. Attraverso torroni, croccanti, brigidini e cilinghe infestati di sudore, le braccia pelose d’avventori donne, uomini e bambini, unti dalla purpurea benedizione d’una Processione, altalenante trofeo di Vergine in ciclo
Vergine in lagrime, sangue & arena. Sorretta da Chierici edonisti impasticcati la miracolosa preme il dolce calcagno sulla testa recisa d’un Toro scatenato e poi scannato in sua grazia, ed il suo occhio bufalino e opaco vede e riflette:
– omuncole in sciarpina rosa e piumino totale, gonnella in gabardina macchiata di bistro di mammà e cioccolatone negro strafondente, richiama il colore dei denti dei quattro Carabinieri in alta uniforme e bassa lega, pennacchio al cielo, fuoco d’artifizio retrostante… fa cilecca… moccolo gutturale del fuochista indigeno in tuta d’olio bono e olio di macchina, l’ascella pezzata Esso e la mascella spezzata,
– la ginnasta giovina sul tortino a tamburo esegue le grand-jetè: le madri piangono
– al pianoforte a pila la Sig.ra Gori con le dita smaltate e i ricignoli tinti di rosso, alita bunker, dirige con piglio emostatico, ferreo, indossa occhiali con catenella d’oro zecchino D’oro, gli amanti delle madri palpano culi stupefatti di figlie tredicenni, là , dove duole il brufol grosso –
– giovin signori in scuter e piattoni aerodinamici sfoggiano gelatine kevlar, colli sudici, e fauci spalancate sull’oblio cenobitico di hamburger di soia e lucertole vive, dispensati da un harekrsna: offeso per l’aggiunta animale al suo prodotto esterno lordo, lamenta un odio non corrisposto, non provato, mai spentosi. Inutilmente gorgheggia litanie rivolto a colei che mostra la carie del sorriso, come un ventre sensuale costellato di punti neri che chiama NEI e stelle implose, nane bianche al largo da ogni troiaggine sottocintura, sotto il fiocco del top stretto al grasso seno come nuove costole, per nuove genesi di un terzo sesso, il suo, maremma malaria! dalle cliniche di Casablanca al pronto soccorso mobile in Piazza: la Misericordia indossa giacche arancioni catarifrangenti su fieri ragazzoni briai, intenti a porgere impacchi ghiacciati ai rissosi del Biliardo, intellettuali della geometria di ogni tappeto verde coi polpastrelli intrisi di tre a mattoni e due di picche, esperimentatori di Grappe nardini ed estere doppio-malto esterrefatte turiste circumpolari decompongono e ricompongono la logica del Caratteristico e del Pittoresco, in un idioma piallante pieno di g e di k, ricostruiscono il paesaggio secondo i criteri Kantiani della cartolina, mandata agli amici per fargli dire, invidiosi:
“GKGK KGGGKK GKGHGKKGGGHGKKKGHKKKK!!!”
Acrobati e trapezzisti eroinomani, agguantano al braccio, piroettando la Soubrette di tutti gli Sballi, e i balli lisci fra damigiane di vuoto festeggiano alticci, la nascita della Tragedia e della figlia del Maresciallo, Itaglia, portata in trionfo dal vincitore universale del torneo di briscola a cui tutto il mondo deve svariati cognacchini e caffè – dalle sbarre di scantinati mugolano significativamente autoclave non invitati intanto crolla una palazzina in periferia, sventrata dai gas del suicida: trionfò la sera scorsa, nella pugna dei Borlotti rifatti salvia, ovo e scalogna di quella NERA, degli orti sempre più verdi di ogni vicino frontiera avversa di persiane sbatacchiate e persone abbacchiate sui coiti vertiginosi dei giòvani trsgrssivi a capello sciolto sotto la pioggia che rovina la festa e muta in fango i giardini fioriti.
– Cani Idrofobi nel buio delle logge del Comune ringhiano ad assenti testimoni di Geova; loro gli vendono Watchtower e quelli si convertono, asportandosi chirurgicamente, con un morso al cuore, l’odio dal loro petto. Un morso al petto come quello che sentì Ruggero nel vedere, cristallizzate chiazze di sperma altrui, sulle calze ad uncinetto della su’ fia GiovannaD’Arco, le sue lacrime non spensero il rogo, nemmeno la confessione al prete spippato né la penitenza sussurrata dietro una colonna fra la navata centrale, il pulpito e la tranvata finale: essa ebbe a inginocchiarsi sulla grata dei Matti, nascosti nelle cripte-cottolengo del Duomo, frutti dell’abominio di rapporti consanguinei fra mariti e mogli per bene, mugolava ancora le Glorie quando venne sorpresa. La lingua del matto, rigata di ruggine, ancora attaccata alla grata traboccava a scassadenti – la processione entra in chiesa lo sdegno pervade 4 dei 12 portatori sani di madonne, fra cui Ruggero – tutti fratelli senza saperlo,
il volto di porcellana della Vergine, riflette la luce delle candele alieno ad ogni peccato e ad ogni giustizia, ri-piange prima di sbriciolarsi al suolo – il prete spippato bestemmia
le grida della peccatrice si confondono a Romagna Mia, il cantante, offeso
alza la voce.
Una composizione dalla mia ultima plaquette “Scritti per la Fine del Mondo” che si concentra sugli operatori di settore, gli addetti ai lavori e sull’edonismo irragionevole e la retromania che sembrano essere la malattia inguaribile di cui inevitabilmente periranno questi esemplari d’umano che popolano il presente.
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BREVE RESOCONTO DI INIZIO MILLENNIO
Gli Orsi Polari morivano di noia
ancorati all’idea di una banchisa perduta.
La bianca distesa svanita
in un disgelo anch’esso
composto con la sostanza del ricordo.
Innamorati felici
si scambiavano revolverate
correndosi incontro, moribondi,
col kit di primo soccorso
per curare interminabili ferite
di armi sconosciute.
Uomini confusi
lanciavano granate nella foschia,
il breve ridere loro furbesco
partoriva lo sgomento
che paralizza il disegno animato
nel vedere l’ordigno beffardo
rilanciato dal nemico inaspettato.
C’erano questi ed altri
ed altri ancora che non sembravano importanti.
Addetti ai lavori in maggioranza,
funzionari e giovani di mestiere
che abusavano dell’invidia e del rancore
e non sembrarono mai capire
la loro ridicola sventura.
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da “Scritti per la Fine del Mondo”
di Simone Molinaroli (Ass Cult Press, 2013)
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