Un po’ in ritardo sui tempi di cambio delle stagioni, dal momento che sembrano essere già arrivate sia la primavera sia l’estate, ecco la mia ultima minchiatella poetica. Pensata e cominciata durante il lungo inverno di campagne elettorali invasive svincolate dalla prossimità di appuntamenti elettorali, terminata ieri mattina in sala mensa.
Con tutti i limiti imposti dalle capacità dell’autore, dalla voglia, dal tempo a disposizione, somiglia a un sonetto.
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Che finiscano presto l’inverno e le brume
e con l’inverno le campagne elettorali
e con le brume i brutti musi,
i manifesti indegni, i temporali.
Che finiscano le afflizioni, l’ignominia e le affissioni,
le manfrine degli uomini peggiori,
il parolume criminale lontano dall’umano
le rivoluzioni promesse e i caporioni.
Che torni Primavera e la scintilla
che accende i corpi e ingovernata
con le vite qualunque fa la storia,
il giusto e l’eccedenza incalcolata,
la violenza che difende la ragione
la ragione da cui il diritto stilla.
Stasera comincia la ventesima edizione dei Campionati Mondiali di CalcioFifa. Si disputano in Brasile e questo li fa diventare dei Campionati Nobili come tutti quelli che si giocano nei paesi che hanno fatto la storia del calcio e dunque anche di parte dell’immaginario collettivo presente. Ed è innegabile che molti sperano che si ripeta il miracolo della compagine Uruguaiana del 1950. Quando il Capitano Obdulio Varela fece spegnere l’entusiasmo e l’urlo dei 200000 del Maracanà, dopo il gol del vantaggio brasiliano, trattenendo il pallone per lunghissimi interminabili minuti prima di riportarlo nel cerchio di centrocampo per la ripresa del gioco. Io lo spero.
Ed ho anche una predilezione per le notizie ormai fuori corso, obsolescenti, status che le notizie al giorno d’oggi raggiungono molto velocemente, il giorno seguente la loro uscita nel media mainstream (di regime?), appena terminato il primo giro d’isteria collettiva & social che esaurisce ogni possibile sedimentazione e possibile reazione intellettuale e/o fattiva. Andrei a rileggere ritagli di vecchi giornali per poter parlare di cose ingiustamente (ma adeguatamente) seppellite da un multistrato vischioso. Ritengo che sia l’unico modo per riflettere in senso proprio sugli eventi e sulla narrazione stessa degli eventi in cui siamo immersi e non lasciarsi andare ai sentimentalismi e agli psicologismi che partoriscono pericolose aberrazioni storiografiche.
Il fatto è questo: l‘International Board (IFAB) è l’organo che dal 1886 delibera in merito alle regole secondo le quali si può giocare al Football.
Durante la sua 128esima riunione generale annuale (AGM) tenutasi sabato 1 marzo presso la sede FIFA di Zurigo l’I.B. ha rilasciato alcune importanti modifiche al regolamento. Non tanto alle famose 17 regole fondamentali che regolano lo svolgimento dell’azione agonistica, quanto alle modalità e al contesto in cui la partita viene giocata. Questo non sembra aver turbato i tanti appassionati di calcio. Eppure si tratta di modifiche che introducono elementi contraddittori nella governance calcistica. Da una parte si consente l’uso di vestiario riconducibile apertamente alla propria fede religiosa, turbante per i sikh, velo per le donne di fede islamica (se ne parla qui), dall’altro si vieta ai giocatori di vestire sotto l’uniforme ufficiale magliette con slogan e scritte di alcun tipo. Né riconducibili alla vita privata, né alla politica o al conflitto sociale. Come se palesare la propria fede fosse legittimo, ma non il proprio sdegno per qualcosa che si ritiene ingiusto. Se si ritiene l’erba verde un manto neutro dove l’opinione personale non ha diritto di cittadinanza, così dovrebbe essere per la credenza religiosa.
Così come fece Robbie Fowler nel marzo 1997 durante una partita col Brann Bergen, sfoggiando una maglietta dove campeggiavano in grande i caratteri C e K che compongono il logotipo di una famosissima marca di abiti e accessori, ma che in realtà erano parte di una frase che cercava di sensibilizzare sulla sorte dei portuali di Liverpool che avevano perso il lavoro. “500 Liverpool dockers sacked since September 1995”.
Robbie Fowler già al tempo venne multato. Come se il calcio non vivesse circondato anche dal conflitto e dalla miseria, dalla povertà e dalle legittime rivendicazioni di chi perde il lavoro (si pensi ai Mondiali del 78 in Argentina o in Sudafrica nel 2010 e alle tanto discusse manifestazioni anti-mondiale di questi giorni nello stesso Brasile). Come se il calcio fosse un enclave dove gli abitanti rinunciano ad avere una storia, un’appartenenza culturale e sociale. Dove è impensabile che chi, per talento, fortuna o entrambe le cose congiuntamente, si lascia alle spalle un passato di difficoltà voglia mantenere ben saldo un legame con la comunità di cui è espressione ed anzi, ne rivendichi orgogliosamente l’appartenenza. Ciò che appunto fece Robbie Fowler durante il Liverpool dockers’ strike.
Tutto ciò che accade in un campo di calcio durante una partita di una federazione affiliata alla Fifa è di proprietà della Fifa stessa. Le divise, l’underwear, lo spazio fisico e quello immaginario, i corpi dei giocatori, la metafora, il gesto tecnico, la narrazione stessa che non riesce più ad ingigantire il gesto e farsi calcio ulteriore nelle ore del calcio ri-pensato. Tutto è di proprietà della Fifa e dei suoi gruppi d’influenza.
Un luogo inabitabile alla fantasia.
E le mie non sono le parole dei restauratori e reazionari delle curve d’oggi a cui piace tanto dire “no al calcio moderno” per convogliare le legittime aspirazioni a un calcio altro verso un immaginario calcio del passato, che io sospetto mai realmente esistito.
Sono le parole di chi vorrebbe vedere un calcio di Uomini e non di figuranti, partite non accomodate, sorteggi non pilotati e mai, per nessun motivo, l’espressione di liberazione di Platinì al momento del pareggio madridista in finale di coppa dei campioni.
Ma, come disse Maradona, la Fifa è governata da dinosauri. Blatter è uno che non ha mai tirato un calcio ad un pallone e dunque credo sia la persona meno opportuna per ricoprire un ruolo istituzionale così importante.
Il Mondo è Morto, non senti l’odore?
Si sente odore d’incenso e idrocarburi,
di eroina e trasmissioni elettorali.
Non senti il suono continuo
del calcolatore bizzarro che sancisce
la Sua Morte?
Non senti il canto degli Sterminati?
I traccianti nel cielo non sono
pirotecnie di compleanno
e nemmeno naufraghi in gommone
che segnalano disperati la posizione.
In televisione non ne danno notizia.
Guardie armate sparano
colpi d’avvertimento verso il cielo
per arrestare la marcia dei curiosi
e spesso un Tedesco vestito da Donna
parla della necessità del confronto,
ma necessariamente, nella Verità.
Il Mondo è Morto, non senti l’odore?
Non senti le trombe, gli sciacalli, gli avvoltoi
il buonumore raro del barista
che ti parla di un futuro improbabile
ti passa un bicchiere avvelenato
da un sorriso fuori tempo? (Le profezie, la termodinamica, il buonsenso, la noia,
pronosticano in tempi diversi lo stesso evento
peraltro già avvenuto…)
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da “Scritti per la Fine del Mondo”
di Simone Molinaroli
(Ass Cult Press, 2013)
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Ho in tasca l’eco di parole
che un tempo appartennero agli ubriachi
che un male mai battezzato rese fiacchi
e la vanità callosa da profeta impiegato
innalzò al Silenzio Colossale dei night bar.
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da “Scritti per la Fine del Mondo”
di Simone Molinaroli
(Ass Cult Press, 2013)
Lamentarsi del declino imperante sembra essere diventata l’abitudine più diffusa in questi tempi di crisi. Declino economico, culturale, morale, politico, sociale, artistico. Si lamentano del declino morale e culturale dell’Italia scrittori autorizzati, opinionisti preregistrati, cupe vallette di regime, commentatori di partite di calcio, filosofi, psicologi e sociologi di scuole innumerevoli, tifosi delle curve in fissa col fantomatico calcio di una volta, donne in politica elette con le quote rosa e terribilmente somiglianti all’effigie delle sante dei santini, l’uomo della strada anche lui si lamenta, l’uomo qualunque si lamenta, si lamentano tutti, tutti hanno un’età dell’oro nascosta in qualche remota zona della propria immaginazione.
Tutta questa lamentatio fa venire il voltastomaco.
Ma quando a parlare del declino è un rappresentante della macchina dell’industria culturale, dall’interno di quella macchina che può essere legittimamente considerata tra le reali e principali responsabili di quel declino che è comodo vedere e sul quale è ancor più comodo speculare, con la pagnottona di pan bianco pagata coi soldi di chi quel declino l’ha imbastito e colorato e reso appetibile per questa grande massa di uomini e donne appena uscita dall’arcaico mondo di “prima della guerra”, quando a parlare è un qualsiasi intellettuale organico al sistema cultura dominante, il trucco diventa evidente. Quel Declino di cui tanto si parla non è di ognuno. Quel Declino è principalmente di chi lo sottolinea e sottolineandolo si rende strumento del declino stesso, l’accurato strumento di precisione del sistema cultura che, negando sé stesso, fa ammenda e lavacro bastevoli per ulteriori e più energiche spinte sulla leva del declino, ma al contempo non fa eccezione e si fa conferma umana dell’adagio solito “tanto alla fine siamo tutti uguali…”.
L’ossessione del declino è essa stessa declino.
Sia che si tratti di paura per il non più ripercorribile divario con l’arcadia che molti custodiscono nel cuore, sia che si tratti dell’ossessione per un’idea di progresso che prevede un avvenire ipotetico ormai non più raggiungibile a causa dell’abbrutimento dell’uomo contemporaneo. Il vero declino personale è non essere capaci di pensare al proprio presente senza dover sposare la rassegnazione, il cinismo spicciolo, la spregiudicatezza, la simpatia infingarda del piazzista di bond, il sorriso dell’uomo copertina (vedi foto), la performatività, la mancanza d’entusiasmo e di volontà. Volontà principalmente di praticare forme d’esistenza diverse da quelle declinanti da cui nessuno di questi lamentanti di professione sembra volersi veramente dissociare. Secondo la ben nota strategia che prevede di mettere in discussione il fenomeno (che può essere conveniente) senza avere il coraggio di mettere in discussione la causa (che può essere sconveniente).
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