Viene il mattino e arresta la deriva la prematura discesa tra le schiere di chi comincia e di chi finisce. Dopo quaranta giri le cose hanno un nome e un respiro impronunciabile proprio un incavo invisibile e infinito dove vivono le molte direzioni che non abbiamo scelto che non ci hanno scelto.
Solo nel recente passato, quello di cui io serbo memoria, il 90 percento delle analisi e delle previsioni di chi, autorappresentandosi come esperto o possessore di informazioni privilegiate, tacciava le opinioni altrui di dilettantismo, di mania di protagonismo, di inesperienza, di becera ignoranza si sono rivelate, nel migliore dei casi, un grande cumulo di minchiate. Nel peggiore invece un uso surrettizio del discorso pubblico e dell’informazione per fini biecamente propagandistici. Con questo non voglio dire che fossero esatte le analisi e le previsioni degli inesperti perché anche le loro per il 90 percento erano la risultante di fede, speranza, poca modestia, furbizia congiunte. Cosa voglio dire allora? Che ci gioverebbe staccarci dai temi emotivi e ricordare le parole di due colossi del 900 che conobbero dal vivo le tempeste della storia e la brutalità dell’agire umano. Louis Ferdinand Celine e il monito con cui nel suo Viaggio ci metteva in guardia dal farsi trascinare nel macello. Perché è sempre con l’amore (e con l’entusiasmo irriflessivo aggiungo io) che comincia il macello. E le parole di Emil Cioran sull’intercambiabilità delle idee il cui rifiuto necessariamente fa scorrere il sangue. Anch’io come tutti gli altri ho il 90 percento di possibilità di tirare immani cazzate. Ma umilmente mi metto nella scia dei due da me citati e senza il loro acume e sicuramente con meno stile voglio suggerirvi una cosa. Un uomo (o una donna) che per convincerti della bontà della sua idea ha bisogno di farti piangere o intenerirti sta cercando di mettertelo in culo. E non sottovalutate l’intercambiabilità delle idee.
La carota
è uscita marcia dal frigo.
Il tappo si è spezzato
dentro al collo. Nell’aria c’è il gran morbo.
La sicurezza è la tenaglia che estrasse
il dente buono nell’eccesso preventivo.
Il sorriso menomato comunque
si staglia, mònito rubèsto e sfrontato
che il fingere la vita non è meglio
del morire.
SAFE SUMMER
The carrot
it came out of the fridge gear.
The cork broke inside the neck.
The great disease is in the air. Security
is the pincer that pulled out
the good tooth exceeding prevention.
The crippled smile anyway
stands out, stubborn and brazen warning
that pretending life is no better
of dying.
Attraversammo le turbolenze del vivere con l’aeroplano di balsa e il multiuso rossocrociato avuto in dono il primo giorno di scuola dallo zio avventuroso che conobbe i veri marósi. Dati per spacciati in partenza atterrammo sulla pista da ballo non attesi durante una festa e accolti con garbo dal padrone di casa phonàto. Non mancò intrattenimento non mancarono cocktails e olive ringraziare sembrò il minimo. A parziale conguaglio lasciammo segni provocazioni mascherate da interstizi domande che il tempo rese enigmi. Poi venne tardi e fu giorno C’era sciopero dei mezzi e tornammo a casa a piedi.
C’è una cosa che è peggio del rivoluzionario da tastiera ed è il critico da tastiera del rivoluzionario da tastiera. C’è di peggio di un pessimo scrittore e di un pessimo cantante e sono i loro critici pavidi. C’è qualcosa di peggio di una vita mal spesa. Ed è una vita spesa a parlar male delle vite mal spese. Diceva Cioran, e forse non ricordo con esattezza la frase ma ci provo, che è meglio parlare male di cose che si conoscono che con grande perizia di ciò che non si sa. C’è qualcosa di peggiore dell’ignoranza e delle sgrammaticature che il triste e strumentale formalismo del critico 2.0 attribuisce a destra e a manca, tentando di delegittimare ogni difformità intellettuale. Ed è il bello scrivere e il parlare forbito servili. L’intelligenza asservita e priva di coraggio. E c’è una cosa è peggio di un brutto tatuaggio. Il tempo impiegato a non farsene uno più bello o a non farsene affatto, ma privi di quell’ansia di predicatori e moralizzatori falliti negli intenti, nell’effetto e nella pratica. Sono quei segni privi di ogni rimando alla vita che anche ben eseguiti, non necessariamente sul derma, riempiono l’esistenza degli uomini (e delle donne). E c’è una cosa che è proprio peggio di tutte. Il dividere il mondo in due, andare avanti per dicotomie che non raccontano mai tutta la storia da nessuna delle angolazioni possibili. Tutto il saperla lunga o il fingere di sapere di non sapere che si riducono, dopo un attento ed impietoso esame, a uno stolido, conservativo, dissonante rifiuto di ogni alterità.
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