Pay with a Poem – già fatto nel 1997 a Rimini

Pagare un caffè, oppure una birra, oppure una spuma bionda, oppure un cocktail (solo per quelli che scrivono poesie più pregiate) al bar con una poesia: se aspetti che qualcuno lo stabilisca per decreto non ha più lo stesso valore e nemmeno lo stesso prorompente fascino rivoluzionario e provocatorio. Pagare invece con la poesia dove non si potrebbe, dove non è attesa o prevista. Questo è dare valore alla poesia, costringere chi se la piglia perlomeno a leggerla per capire se ha fatto un buon affare. Sempre che questo dargli un valore di moneta sia considerabile un valore. Mostrare, se mai ne abbia bisogno, le sue ragioni. Perché la poesia abita molto più spesso dove non è invocata che dove invece è nominata spesso, ma il più delle volte a sproposito. Ad esempio nei caffè letterari. Ad esempio nei portali per addetti ai lavori.

Non è per gagaroneggiare e voler sembrare quello che è arrivato prima, che in realtà, come si dice a Pistoia, siamo arrivati tutti èsimi, ma solo per dire che con la poesia si paga, quando è possibile, dove essa non è attesa. Dove la poesia sia frattura, discontinuità, innesto insensato. In quei luoghi dove si è invitati a pagare con la poesia la poesia è nulla. Perde anche il valore di moneta di scambio che attribuito alla poesia è un valore solo se inatteso. Se sorprendente, se predica ai non convertiti e non, come scrisse Andrea Betti, predicare il piscio ai reni e l’amore agli innamorati.

Comunque io e David Napolitano pagammo alcune birre con due poesie. Doveva essere alla fine degli anni novanta. Il fatto che non mi ricordi esattamente l’anno e in quale delle occasioni in cui Io e David Napolitano ci siamo trovati a Rimini è indizio che ci si trova davanti, o dentro, all’episodio di una vita e non semplicemente della ricerca di un riconoscimento ufficiale all’interno del mondo delle lettere. Insomma, andammo a Rimini per cercare un editor di una casa editrice considerata al momento cool. Editor il cui nome ci era stato indicato da un comune amico che lavorava nel settore. Andammo al Block 60 per la presentazione di un libro di una giovane scrittrice che a giudicare dalla promozione che l’editore aveva messo in campo forse veniva pensata fenomenale, ma di cui in realtà si perse ogni traccia all’istante. Parlammo con l’editor, lasciammo ciò che dovevamo lasciare, parlammo del nostro lavoro, ma anche di quello degli amici, una vocazione, quella dell’altruismo, decisamente antieconomica in un ecosistema popolato perlopiù da ambiziosi e opportunisti. Lasciammo comunque all’editor una serie di dattiloscritti di tutti gli autori di Ass Cult Press. L’intento era quello di proporre un’antologia. La missione era terminata e dunque cominciò il resto.

La serata si trasformò poi in tutt’altro. Ed il tutt’altro era la nostra vera vocazione. Il tutt’altro da cui discende la letteratura se non vuol essere solo letteratura come scritto nell’epigrafe del primo capitolo di “Primavera Nera” di Henry Miller. What is not in the open street is false, derived, that is to say, literature. Un lungo vagabondare per bar, locali, incontrando persone mai conosciute prima, mai preventivato di conoscere. L’unica sicurezza di quella serata era il biglietto per il treno del mattino.

Gran parte della serata la passammo senza soldi. Incontrando persone di inaspettata generosità, fino a ritornare, a fine serata, in uno dei bar dove eravamo stati quando ancora avevamo della moneta da spendere. Ci avanzavano i biglietti del treno e i soldi per due caffè. Seduti al bancone ordinammo i due caffè e ci mettemmo un po’ di tempo per finirli. La titolare del locale ci chiese se avessimo intenzione di bere altro e noi rispondemmo di sì, ma che i soldi bastavano per i due caffè.

Dietro il bancone c’era un tizio americano, dalla confidenza con cui si muoveva nello spazio si sarebbe detto un amico della titolare,  stazionava lì dietro a farsi drinks e a elargire simpatia e quando sentì che non avevamo soldi mise la mano in tasca, ne trasse diecimila lire dell’epoca e, senza neanche chiedere, offrì due birre. Seguirono altre birre che alla fine David si offrì di pagare con due poesie. La transazione andò a buon fine e tutti vissero felici e contenti. Qual’è la morale della storia? Non c’è una morale perché è una cosa successa davvero. C’è però che a far poesia e mutuare strategie promozionali sbagliate si finisce per diventare le strategie per abbandonare la poesia e la vita. Meditate.

Questo però è materiale per altre riflessioni.

Dattiloscritto originale di "No Mercy" di David Napolitano
Dattiloscritto originale di “No Mercy” di David Napolitano

Festival Culturali e Barbarie

Premessa: avevo scritto la prima parte su facebook in concomitanza con i lavori parlamentari finalizzati all’elezione dell’ultimo presidente della Repubblica Italiana (che io ho definito più volte l’Ultimo Presidente). Ho poi continuato in seguito e dunque questo scritto è diventato assolutamente inattuale.

Più che le manfrine concomitanti con l’elezione dell’Ultimo Presidente della Repubblica, mi fa triste ripensare alle parole del procuratore Gratteri che ho ascoltato ieri sera in radio. Parole in cui si udiva nitidamente, malcelata, una venatura di disperazione. Disperazione nel dover raccontare dell’impossibilità di una azione di contrasto al crimine organizzato e dell’assenza, per convenienza diffusa, condivisa, trasversale, di politiche culturali volte alla formazione di una cittadinanza consapevole.

Non è necessario che io aggiunga niente a quanto detto da Gratteri, spiegando le ipotetiche conseguenze di quanto da Gratteri stigmatizzato. Sappiamo tutti da molto tempo cosa significa tutto questo che ci sta succedendo intorno e che talvolta vorremmo contribuire ad arrestare, ma che non si riesce ad arrestare. Molto spesso non riusciamo nemmeno a calcolarne esattamente la portata e ci chiediamo come sia stato possibile che solo i peggiori si siano ritrovati a dover decidere e deliberare, sperimentiamo quotidianamente l’avvilimento che deriva dall’impotenza operativa e si finisce a riflettere sulla necessità del non fare che accomuna pensatori di tutti gli orientamenti1)Soltanto tenendo presenti le mie ultime letture potrei indicare Alain Badiou e Julius Evola. Ovviamente per diverse ragioni..

Lo sappiamo esattamente come Pasolini affermava di sapere chi erano i responsabili del golpe, delle stragi, della strategia della tensione. Esattamente come lui lo sappiamo, ma non abbiamo prove. Lo sappiamo e basta. Ma a  differenza di Pasolini abbiamo un unico interlocutore. Noi stessi. Ci parliamo di una cosa che sappiamo per cercare di capire come è meglio fare per ridurre quello scarto che ci divide dal centro dell’azione politica. Che sembra al momento impenetrabile e che al momento sembra bene non penetrare.

E voi Pezzi di Merda che vi fate alfieri del realismo e della spregiudicatezza un giorno dovrete renderne conto. Prima che agli altri a voi stessi. Perché ci sono mostri che, una volta generati, non possono più essere affrontati.

Si può quindi peggiorare perseguendo apparentemente il miglioramento. Peggiorare non in senso assoluto quanto in relazione proprio ai parametri che spingono l’utente medio, che li condivide e li coltiva, a tentare la carta dell’apparente miglioramento.

Ad esempio cercando di convincere il prossimo di essere un sincero progressista, pluralista, liberale, pieno di fiducia nelle umane possibilità, sostenitore del capitalismo, del multiculturalismo, delle differenze che arricchiscono e al contempo tradire una disposizione d’animo, un uso linguistico in aperto contrasto con quel tentativo. Esempio: un militante di una formazione politica rivale, una formazione populista, viene ritratto in una posa comica. Le sue idee ridicolizzate sulla base del suo aspetto fisico. Ma la riduzione dell’idea altrui alla deformità fisica, e necessariamente morale, è appena un passo prima la legittimazione dell’eliminazione fisica. Tutto questo è pane quotidiano per il progressista d’oggi. Che alla bisogna si appropria di argomenti che sembrerebbero non appartenergli per poi disconoscerne l’uso subito dopo.

Immagino che il narrarsi progressista faccia stare meglio. Sia consolante per chi segretamente alimenta idee, e talvolta pratiche, innominabili. Perché il progressismo, come il suo cugino il Riformismo, è l’iso 9000 della presentabilità politica. La norma dell’accettabilità svincolata da una reale comprensione reciproca.

Chiariamoci, essere progressisti non è la condizione sine qua non della presentabilità politica. Si può non essere progressisti. Esserlo stato, ma adesso non più. Non essere più progressisti perché si ritiene di aver raggiunto quegli obiettivi che ci si prefiggevano nella propria azione politica, al cui raggiungimento si pensava di voler contribuire. Semplicemente perché si è cambiata idea. Si può non essere mai stati progressisti. Non tutti quelli che hanno una idea del modo sono di sinistra. Lo studio non conduce necessariamente alla sinistra. Non necessariamente a questa sinistra italica che governa con il proprio fantomatico antagonista. Eppure è un pregiudizio radicato nella sinistra italiana quello che fa pensare che non esista altra cultura, altro mondo, altra narrazione aldilà di quelli che gli appartengono o che rivendica come propri.

Si può quindi peggiorare perseguendo apparentemente il miglioramento. Ad esempio, frequentando i festival culturali dove un ristrettissimo numero di oratori è convocato a parlare di un ristrettissimo numero di idee ad uso e consumo inconsapevole di un gran numero di persone intenzionate a non finire i propri giorni in preda all’ignoranza e allo sgomento derivante dal non riuscire a comprendere il mondo circostante. Ma come pensare di comprendere un mondo reso astutamente complesso e complicato con quel piattino di ideuzze insipide, gratificanti e consolatorie che offrono i festival culturali?

Tutto inutile.

Il festival culturale è come il credito al consumo. Se quest’ultimo dà l’illusione di non essere poveri, procrastinando il momento del saldo a un termine sempre più lontano, il primo dà l’illusione di non essere ignorante. Ignorante della specie peggiore. L’ignorante che non vuol far credere alla propria ignoranza, che vuol vivere al di sopra delle proprie possibilità intellettuali e cognitive (così come l’uomo debitore sceglie la schiavitù di una vita al di sopra delle possibilità economiche). Non realmente interessato alla fatica e all’impegno di uno studio serio, commisurato alle proprie possibilità, ma pieno di quella volontà che ampia anche le possibilità di partenza. L’ignorante che è interessato solo all’outlet delle idee. Ma il mercato delle idee è come il mercato delle verdure. Dipende molto dalle strategie di approvvigionamento. Certe idee finiscono per scarseggiare. Contro alcune si fanno campagne denigratorie.  Quelle più care finiscono per essere quelle meglio presentate. Che talvolta finiscono per marcire alla svelta. Magari sono state in freezer, non sono idee fresche.

Sulla scorta dunque di questo inestimabile patrimonio fatto di 4/5 idee si cerca di resistere allo sgretolamento del mondo edificato in secoli di faticosissimo lavoro manuale, sforzo intellettuale, elaborazione tecnica.

Ma non si resiste.

Il mondo si sgretola.

La barbarie ri-avanza.

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Ho usato una nota non per darmi arie accademiche, ma per testare il plugin che automatizza le note a piè di pagina.


GranTeatrodiOklahoma55

References   [ + ]

1. Soltanto tenendo presenti le mie ultime letture potrei indicare Alain Badiou e Julius Evola. Ovviamente per diverse ragioni.

La delusione dello scrittore

Avete mai notato la delusione fuori controllo che talvolta appare sul volto dello scrittore, sia esso un sedicente scrittore, un desideroso di essere uno scrittore, uno scrittore affermato, un amatore, al momento delle presentazioni con un altro/a rappresentante dello stesso vastissimo gruppo umano (il gruppo è in effetti esteso ed è difficile non imbattersi nei propri simili)? Perché lo abbiate notato è  necessaria una precondizione. Che siate scrittori pure voi, che anche voi siate nella schiera di scrittori, sedicenti, desiderosi, quindi se non fate parte dell’insieme e volete testare quell’espressione che talvolta appare sul volto degli scrittori non avete che da chiedere. Mi presto volentieri per presentarvi come amici scrittori ad altri scrittori, sedicenti, desiderosi, affermati e semiaffermati. Se non siete scrittori fingetevi una volta tali oppure fidatevi di me.
La Delusione, io mi chiedo, sarà provocata dalla presunzione della velletarietà delle altrui intenzioni ed opere o dalla consapevolezza della propria? Questo mi chiedo. E di presunzione si tratta ché al momento delle presentazioni, di solito, nessuno sa niente dell’operato dell’altro, perché spesso nessuno sa veramente niente nemmeno dell’opera di chi conosce personalmente. Perché spesso si critica per sentito dire, per antipatia, per spirito di scuderia e più spesso ancora non si leggono le opere dei propri simili. Si apprezza per convenienza, per appartenenza, per aver ricevuto compenso, per ottenere apprezzamento in risposta, consenso che genera consenso e via così.
Non sarà forse il dubbio d’aver sbagliato mestiere, hobby, oggetto per investimento libidico? A quella delusione io associo ormai la volontà malcelata di restare soli a coltivare i resti di quelle che ormai vengono chiamate Humanities perché, come tutte le altre produzioni attuali dell’umano, siano riducibili a degli standard di accettabilità che hanno a che fare con la pubblicità, la propaganda di regime, il politicamente corretto, la parità di genere, la speranza balorda che tutti vengano dichiarati inabili tranne uno. Che apposite commissioni vengano approntate per vagliare ed, eventualmente, impedire la libertà di esprimersi ed esporsi al giudizio altrui. A quella delusione associo una forma d’edonismo del tutto simile a quella dei poverelli dei talent show. Ma rovesciata. Perché mentre il poverello ricerca palesemente e consapevolmente il colpo di culo, l’accelerazione fortunata che lo strappi a una vita di lavoro noioso, a un anonimato giusto, ma ormai inaccettabile per tutti, e lo premi per la sua mancanza di talenti esattamente simile alla mancanza altrui in un grande democratico statistico rituale collettivo, l’altro cerca la conferma alla propria ambizione spesso alimentata da forme temibili d’autorappresentazione delirante, ma altrettanto spesso non supportata da nessun reale talento. Se da una parte c’è della deprecabile, ma sincera spregiudicatezza che, per puro caso, può addirittura trasformarsi in libertà e disposizione all’askesis, dall’altra c’è un’ipocrita e miserabile disposizione al servilismo, alla schiavitù intellettuale, quella che per esempio fa vivere molti all’ombra del professore famoso nell’attesa del tornaconto. Tornaconto che spesso non arriva e fa dire agli ambiziosi delusi cose terribili su chi fino al giorno prima hanno difeso con entusiasmo nordcoreano.
L’ultima volta che è successo con me coinvolto in una presentazione tra scrittori (nessuno dei due famoso o famigerato, accreditato o autorizzato) è andata così:
Ah, scrivi anche te… con quel tono di voce atonale che ricorda le signorine dei navigatori e dei caselli automatizzati.
“Certo” risposi,  “qui scriviamo tutti.”

Si evidenzia in questi frangenti una disperante mancanza di autoironia, di autocritica e una palese mancanza di misura nel considerarsi in relazione all’influenza esercitata dal proprio scrivere/pensare. Si potrebbe elaborare una formula per calcolare l’influenza approssimativa di un intellettuale e che lo si potrebbe è evidente. Ed è altrettanto evidente che è uso diffuso in ambito letterario comportarsi come se si esercitasse un’influenza tangibile, quando invece è nulla in realtà.

Ma sul tempo lungo siamo tutti morti. Lo siamo già adesso. E non disperate. Della maggior parte, della quasi totalità di coloro che adesso scrivono, compresi gli autori di successo, compresi numerosi autori veramente dotati di talento, il tempo a venire non serberà memoria alcuna. E non certo per sfortuna, ma perché il tempo è un Signore.

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