La scomparsa della classe media

 

L’Istat, nella persona del suo direttore, m’informa, tramite il servizio radiofonico nazionale, che in Italia si sono estinte sia la classe operaia, sia la classe media e poco più che media. M’informa altresì che la mobilità sociale è un articolo che da noi non è mai andato molto di moda e adesso men che mai. Afferma placidamente che il posizionamento iniziale è, tra tutti i fattori concomitanti, il più importante nel determinare il successo economico e/o sociale. Più di prima.

 

Ecco una cosa che non avrei mai pensato. Che l’Italia sarebbe potuta diventare una nazione più classista di prima.

L’informazione in mano ai Canini Sega

La cosa più disperante della metodica dell’informazione contemporanea, non parlo dei singoli che usano i social network per sproloquiare di cose che non conoscono, ma dei professionisti dell’informazione, è l’affrettarsi zampettante da canino sega sulle notizie per tentare, senza contribuire alla costruzione dell’opinione pubblica informata, di legittimare la propria posizione. I giornalisti sono tendenzialmente canini sega incerti di ciò che pensano e che dunque cercano approvazione contribuendo al contempo, molto più del chiasso sociale che finisce nell’ossario della comunicazione anonima, alla polarizzazione, alla confusione, all’abbrutimento. E sappiamo bene che genere di inculata è la polarizzazione dell’opinione pubblica. Si rischia di invocare il peggio per combattere il brutto, il deteriore per combattere il peggio, e avanti così su un piano inclinato mobile sul quale si procede verso l’abisso in accelerazione costante.

Se ripenso a Marino (ex Sindaco di Roma)

Se ripenso a Marino ex sindaco dimissionario dell’Urbe, in questi giorni in cui gli alfieri del nuovo e dell’onestà inedita promessa si perdono in traccheggiamenti, nomine e temporeggiamenti dal sapore antico mentre invece il vecchio sistema è asserragliato dentro un fortilizio fatto di manovre e maneggi, quelli che da sempre tengono a debita distanza i rappresentati, ripenso a una massima da Esodo (23, 1) che mi ero appuntato tempo addietro. “Non associarti con gli iniqui per fare da falso testimone”. Non è perché nutra particolare stima di Marino come uomo politico o simpatia per Marino in sè. Non lo conosco abbastanza. Eppure mi va di ritornare su questa faccenda paradossale in cui si lincia un parvenu, o meglio un dilettante, e col linciaggio, a posteriori, si cancella il ricordo di tutti i trafficoni, ammanicati, superprofessionisti della corruzione e della predazione della risorsa pubblica (distribuiti uniformemente) che hanno consentito ciò che si legge da anni su giornali, riviste e libri di denuncia e di cui si sente parlare da sempre in tv e dall’uomo della strada e su cui non c’è bisogno di aggiungere altro. Se è giusto cacciare Marino non sarà giusto anche ricusare tutti, proprio tutti, quelli che hanno avuto a che fare con le giunte precedenti?
E allora chi resta per governare l’Urbe?

Foto pubblicata su Wikipedia Commons per l’uso gratuito (https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:La_lupa_a_campidoglio.JPG)

Incomprensibili banalità

Le difficoltà generali, la crisi e gli eventi infausti uniti a una grande diffusione di informazioni nebulose fanno aumentare esponenzialmente la quantità di cazzate sprecate. Eppure basterebbe, non dico l’intelligenza o l’arguzia, soltanto il buon senso per capire come stanno le cose anche in quei casi in cui più di tutti sembrano formarsi, o vengono narrati, scenari incomprensibili caratterizzati da inspiegabili omissioni da parte delle istituzioni deputate alla governance delle criticità, dichiarazioni mai nitide, un apparato informativo che pare replicare all’infinito un canovaccio poco credibile, ma sempre funzionante, una montante emotività che anch’essa minaccia di essere incontrollata e invece è fondamentalmente il dispositivo che disinnesca la consapevolezza. Se talvolta è difficile trovare, al fine di edificare una propria solida visione delle cose, conforto nelle parole perché non provare coi silenzi? Perché non concentrarsi su ciò che ci viene sussurato dal non proferito da chi è obbligato all’ufficiosità?

Quello che beve un’intera bottiglia (cose che succedono al parco giochi) | Sottoclou XXI sec.

Non sono solito ascoltare illecitamente le altrui conversazioni telefoniche. Le ascolto solo quando sono in un luogo da cui non posso muovermi e il mio vicino parla a volume sconsiderato dei cazzi propri. E in quel caso le devo ascoltare per forza. Dunque a volte mi capita davvero di ascoltare involontariamente conversazioni telefoniche di vicini di posto in treno, di colleghi, di persone tra gli scaffali dei supermercati, al bar. Mi capita di doverle ascoltare perché sono condotte a volume inadeguato e in luoghi inadatti. Dunque le ascolto mio malgrado. E non capita mai di ascoltare una dichiarazione d’amore, una poesia recitata con perizia, il racconto di una memorabile rovesciata in una partita di calcio mai vista quarant’anni prima, la descrizione dettagliata di tutte le percezioni dovute a un bicchiere di vino, una canzone composta sul momento e telefonata a un caro amico. No. Non è mai niente di tutto questo.

Ed è una situazione che capita sempre più spesso quella di ascoltare le conversazioni altrui, tanto che a volte ci si intende una volontà di essere ascoltati, di essere registrati come viventi, una affermazione pubblica della propria individualità. Capita spesso di dover ascoltare le playlist dei bimbyminchia col telefonone che cambiano canzone ogni dieci secondi. A quel punto gli obblighi diventano due. Non potersi spostare ed ascoltare. Che è pure una condanna. Spesso è proprio una vera rottura di cazzo. E allora, dal momento che sono obbligato ad ascoltare, mi faccio un’idea, giudico severamente. Tiro anche delle conclusioni. Conclusioni momentanee, senza destinatario, senza scopo.

Inoltre essere messo a parte di segreti, siano essi incoffessabili veri segreti o solo manfrine dialettiche tese all’irretimento, mi mette a disagio. Essere messi al corrente di un segreto è essere zavorrati, una chiamata in correità, intrusione fraudolenta di un cavallo di troia nell’immaginario, una richiesta indebita di complicità, violenta trasparenza indotta dal vivere nel nostro presente panoptico fatto di reti sociali dematerializzate, dove tutto è simultaneamente esposto al giudizio di tutti nella ossessiva ricerca di riconoscimento. Come scriveva Baltasar Gracián “i segreti, nè si devono ascoltare, nè dirli” ed io mi attengo scrupolosamente a questo monito saggio.

Ma torniamo all’inizio. Al motivo per cui sto scrivendo.

Tempo fa mi venni a trovare in un parco pubblico di Pistoia (capitale della cultura 2017) con Leone, il mio giovane figliuolo. C’era alta densità di bimbi, alta densità di genitori, alta densità di telefoni cellulari. Alta densità di telefoni cellulari utilizzati in diretta. Alta densità di esaurimento. Alta densità di grida. Io e la borsa con le cose necessarie a un babbo occupiamo una mezza panchina libera e mi metto a vigilare sui giochi di Leone. L’altra metà della panchina è occupata da una mamma con bambino. Che a un certo punto impugna il cellulare e comincia una conversazione telefonica a voce altissima, letteralmente urlando dentro il telefono. L’interlocutore all’altro capo lo immagino stordito, paralizzato nel gesto di tenere il telefono verso il cielo tentando di disperdere quell’onda inarrestabile di discorsi sparati a un livello di decibel intollerabile. La chiamata continua per quasi tutto il tempo della mia permanenza al parco giochi. Ed è una escalation. La signora in questione si lamenta palesemente del proprio partner descrivendolo, davanti a una platea piuttosto vasta e ignorando che in paesone come Pistoia, nonostante sia stata dichiarata capitale italiana della cultura, la possibilità di trovarsi accanto a un parente, un amico, un conoscente, un impiccione che aspettava solo l’occasione di venire a conoscenza di un particolare segreto da rivelare istantaneamente durante una sessione di gossip a sera tarda al pub, quando la conversazione si fa stanca e non c’è niente di meglio che parlare delle vite altrui, è altissima, come un insopportabile buono a nulla, un grande navigatore di divani, dedito all’alcol. Questo particolare per la signora è importantissimo. Lo investe di grandi aspettative nel suo tentativo telefonico di sputtanare il compagno perché insiste ripetutamente sull’argomento fino ad arrivare all’argomentazione definitiva. “Certe sere beve addirittura un’intera bottiglia” dice con disprezzo. Questo insistere sull’intera bottiglia come unità di misura della dissoluzione umana richiama la mia attenzione fino a quel momento discontinua. E penso in silenzio alcune cose. Prima di tutto spero che sia vino bono ché, si sa, il vino poco buono fa male e comunque intristisce. E poi penso anche che nella lamentazione la signora investe la bottiglia di troppa importanza e comunque a mano a mano che la sua conversazione telefonica procede, e la protagonista si inoltra in territori pericolosi che non ho alcuna intenzione di ascoltare, io intravedo nitidamente 4/5 motivi per cui potrebbe essere il compagno a lamentarsi e 4/5 motivi (gli stessi) per cui lui potrebbe decidere di bersi una bottiglia tutte le sere, anche più di una bottiglia e decidere di darsi anche alla droga pesante. Pensato questo ho cambiato panchina, nonostante la prima fosse all’ombra e in posizione strategica, per raggiungerne un’altra dove non ci fosse l’accompagnamento della telefonata e finire comunque per dover ascoltare la sua telefonata come un elemento dominante, nonostante il vociare dei bimbi, il rumore dei motori in lontananza, qualche clacson, adolescenti rumorosi, uccelli, cani.

paradiso