Haters non Haters

Due interessanti, quantomeno degni d’esser presi in considerazione, fenomeni mediatici concomitanti di questi nostri giorni sono gli Haters e i loro detrattori. Gli Haters, se non ho capito male, sono quelli che fanno le battute ciniche quando le cantanti cascano, i famosi muoiono, i presentatori piangono, le soubrette imbruttiscono e via e via. Gli altri sono presumibilmente ammiratori di questi famosi presi per il culo che, forse per eccesso di immedesimazione, difendono i loro beniamini dalle battute degli Haters. Sono detrattori di detrattori. Un sottoprodotto umano e culturale non dotato di libero arbitrio fosse anche solo l’antipatico e guascone spirito degli Haters.
Eppure questa gente famosa vittima dell’odio e dell’invidia degli Haters vive nel Gran Teatro di Oklahoma. Son diventati famosi facendo la merda, abituando il pubblico alla merda, con la spregiudicatezza e l’opportunismo, contribuendo nel loro piccolo all’abbrutimento generale. E dunque, quando alla fine ottengono indietro la merda, farebbero meglio a non lamentarsi. Cioè, farebbero meglio a non lamentarsi i loro ammiratori, ché io non ho mai sentito un personaggio famoso lamentarsi del fatto di avere dei detrattori dal momento che è risaputo che avere dei detrattori equivale ad avere una carriera di successo.
Con questo non voglio dire che il tempo speso a ridere di una famosa cantante caduta rovinosamente a terra durante uno spettacolo sia tempo ben speso, il tempo ben speso è quello in cui si ignora la cantante, mentre canta, mentre cade, quando è in piedi, da viva e da morta. Ed è unanimemente considerato riprovevole ridere dei morti ancora caldi, ma certo non si può inibire l’equivalente delle vecchie chiacchiere al bar solo perché non sono circoscritte tra le mura del bar o perché i vecchi bar per le chiacchiere non esistono più. Non è per insistere, ma se vedi un vecchio, o anche giovane, trombone televisivo o assiduo abitante dei rotocalchi scandalistici sfigurato dal botulino e/o dalla chirurgia estetica e ridi, non è per via dell’odio o dell’invidia alla quale, ormai sopraffatti dagli eccessi dello psicologismo, viene attribuita la sicura paternità di ogni forma di dissenso e di difformità dal pensare (pensare è un parolone) dominante, delegittimando così ogni forma di alterità e la psicologia stessa. È per via del botulino e della chirurgia estetica. È per via della chirurgia e del botulino che si ride. A ragione, secondo me.

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L’Empia Mano, Baudrillard, il multiculturalismo

Non è mia l’Empia Mano.
Non è mia la Mano Empia che tracciò con l’orrendo strumento, l’evidenziatore color Giallo Tassoni che io mai usai nemmeno negli anni dello studio universitario e nemmeno sui libri di mia proprietà, al massimo una leggera sottolineatura a matita o una breve nota a margine, una riga sul libro di Baudrillard (l’illusione della fine) gentilmente prestatomi dalla biblioteca comunale di Buggiano.
A quella mano empia sento però di riconoscere, stante la condanna dell’odioso e incivile gesto, di aver sottolineato una frase che anch’io avrei sottolineato.
Perché siamo circondati da parole abusate e Multiculturalismo è una di queste. Circondati da chi ne abusa quotidianamente. Ed è un abuso che significa in realtà “inculare il prossimo”. E sono gli stessi che abusano dell’idea di pluralismo, di populismo, di demagogia. E con la storia del multiculturalismo, come con quella delle differenze, cercano di buttarlo in culo (mi permetto questa espressione colorita perché niente spiega bene come questa espressione) a chi per secoli è stato colonizzato, sfruttato, taglieggiato, depredato, con una modulazione diversa del colonialismo. Ritengo che l’idea di multiculturalismo, così come circola nei paesi occidentali, sia solo un modo per convogliare nell’immaginario comune l’idea della legittimità esclusiva di diverse sfumature umane comunque tutte riconducibili all’idea di uomo/consumatore/giocatore preteso dal tecnocapitalismo. Un modo per coinvolgere le grandi masse di predati nella legittimazione di massa del carattere predatorio del capitalismo nella sua fase finale ideologica. Che il multiculturalismo non sia una produzione postcoloniale è provato dal fatto che non è un’idea condivisa. Principalmente da chi in occidente è minoranza, e fatica farsi integrare e a sua volta non integra dove è maggioranza. E in occidente non si crede realmente al multiculturalismo. Si cerca di crederci.
A proposito di multiculturalismo condivido quanto scriveva Christopher Lasch ne “La ribellione delle élite“, cioè che 《…in assenza di standard comuni la tolleranza diventa indifferenza e il pluralismo culturale degenera in una specie di spettacolo estetico in cui possiamo anche assaporare con il gusto del conoscitore le curiose costumanza del dei nostri vicini, ma non ci prendiamo il disturbo di esprimere un qualsiasi giudizio sui nostri vicini in sé, in quanto individui.》
Certe culture sono per loro struttura (non ho detto natura, non pensate natura) in conflitto. La natura serve ora all’una, ora all’altra, per legittimarsi nelle argomentazioni nebulose, nelle richieste irricevibili. Dietro ogni “cultura” ci sono scelte morali stratificate che niente hanno a che fare con la pericolosissima natura. E le scelte morali sono spesso in conflitto tra di loro a causa delle radicali differenze nelle finalità delle scelte. Non può esistere una macrostruttura che permetta loro una sempiterna e pacifica convivenza. Né credo sussista la possibilità di uniformare, o assimilare, tutte le forme culturali a quella dominante.

Fortunatamente?

 

 

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La Morte della Poesia

Brevemente sull’argomento “morte della poesia”. Brevemente e fuori tempo. Orgogliosamente non sul pezzo. Brevemente perché già innumerevoli autorevoli professionisti del settore si sono dilungati, chi sostenendo d’aver visto il corpo morto della poesia, la sua salma rigida e ghiaccia, neanche ben ricomposta, anzi, ulteriormente disturbata dagli innumerevoli e velleitari tentativi di votarsi alla sua causa. C’è stato chi addirittura ha sostenuto di averla vista spirare in diretta coi propri occhi e chi invece non ha lesinato sforzi per dimostrare che essa è invece viva, vegeta e gode di salute altalenante, ma viva.
Vedo più morta la prosa. Prodotta in serie nelle scuole di narrazione e scrittura creativa. I prosatori con i loro plot arresi all’ordinario, alla medietà di un lettore medio immaginario senza cognizione. Ma nemmeno i prosatori di batteria sono morti. Stanno come stanno. Stanno nella gabbietta, stanno del resto come i colleghi poeti tutti impegnati a sembrare tutti lo stesso poeta, svoltano le giornate e mettono insieme un pranzo e una cena con i loro libretti smorti. Ma questo non preclude l’apparizione improvvisa di uno scrittore di nerbo. Prosatore o poeta che sia. Animato da una irrefrenabile e incontestabile animosità. Non è morto nessuno di coloro che danno segnali di vita. Anche se sembra vita alla fine. O alla frutta come si dice in gergo.
Dire che la poesia è morta è dire una banalissima falsità. Si può essere vivi e zoppicare, andare malvestiti, agonizzanti e scombinati, tristissimi o felici di levata, quasi morti, ma al contempo essere vivi. La poesia allo stesso modo è praticata in modo banale, interessato, professorale, pedissequo, noioso, eccezionale, discutibile, luminosamente ispirato, e tutto questo non è proprio della morte. La poesia se ne va in giro in tutti i modi possibili immaginabili tranne che da morta. Credo che chi dice che la poesia è morta pecchi d’infantilismo intellettuale. È morto, cioè, tutto ciò che non è vivo come dico io. Infantilismo spesso interessato. Per cui si finisce ad apprezzare solo ciò che conferma la propria visione delle cose, ovvero un sistemino di pensiero che ci garantisce una minestra, un privilegio e una posa da conoscitore.
Una posa per l’appunto.
Due coglioni come due case.

E poi, come diceva Margo Channing (Bette Davis) in All About Eve allo sceneggiatore che faceva l’offeso, tutti gli autori dovrebbero essere morti da almeno trecento anni.

Ci vuole pazienza per giudicare.

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La Scorciatoia Emotiva

La scorciatoia emotiva, così come la sua cugina, la scorciatoia cognitiva, non porta da nessuna parte. Sull’onda dell’entusiasmo (altrui) uno crede di imbarcarsi in una divertente e inarrestabile scampagnata insieme a dei simpaticissimi e dinamici Compagnoni mai visti e conosciuti, con cui sintonizzarsi in una fraterna fiducia fortificata dall’azione. Senza sforzo alcuno, né di analisi, né del corpo immobile di cui si anima solo l’arto superiore destro o sinistro. Una vera scampagnata col Torpedone pagato, cori  da gita  scolastica, a rimorchio degli eventi.

Si trova poi nella merda quell’Uno. In situazioni complicate (non complesse) dense di problematiche di difficile risoluzione. Comunque sprovvisto dei più elementari strumenti atti a fronteggiare situazioni e pericoli per cui mai prima si era preparato. Partito per una scampagnata si ritrovò in uno scontro a fuoco. Aveva in mano la tessera dell’autobus. Questo scriveranno di lui sui giornali. Oppure sulla lapide.

In un mare di merda. Nella grande tempesta di merda quando la merda tira da tutte le parti.   Insieme a persone sconosciute, animate da propositi oscuri, diverse da quei sorridenti ed entusiasmanti compagnoni con cui si era imbrancato appena qualche giorno prima. Non certo di volerne più sapere e quasi certo di volersi tirare indietro. E non passa tanto tempo prima che sia “troppo tardi per tirarsi indietro”.

Ma di che si parla?
Si parla di immagini, di adesione apparentemente spontanea a un movimento d’opinione, di propaganda, di aspettative tradite, di quanto sembra contribuire alla costruzione dell’immaginario collettivo, ma che a ben vedere lo smembra, lo rende elastico e gommoso fino al punto di permettergli di contenere e tollerare la compresenza simultanea di molteplici intollerabili fattori.

Si parla di fotografie. Del loro uso. Ma anche di dinamiche di spostamento del consenso. Metaforicamente una scampagnata. Liberata dal peso dello spostamento fisico paradossalmente diventa un porto sicuro e l’adesione senza rischio alle campagne di sensibilizzazione rende infinitamente insensibili. Infinitamente resistenti. Resistenti a tutto. A tutto ciò che si può vedere. Che è tutto ciò che al momento abbiamo. Da immaginare resta poco o nulla. Tutto l’immaginabile è travalicato dall’infotainment.

E i compagnoni?

Se vuoi abbattere il tuo nemico, accertati d’aver prima abbattuto il suo acerrimo nemico. D’averlo perlomeno persuaso a farsi da parte.
Perlomeno.

 

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“Bengala” di Andrea Betti – da “La Felicità Terribile”

Tra i testi di Andrea Betti contenuti nel volume “La Felicità Terribile/Zucchero Spinato”, volume la cui stampa ho avuto il privilegio e il piacere di seguire personalmente, uno dei miei preferiti era, ed è, “Bengala“.
Dove si ironizza abilmente sulla tristemente ridicola sorte di chi, alla ricerca della visione, s’imbarca in viaggi anche molto impegnativi per poi, una volta ottenutala, finire per scacciarla in quanto ormai solo un ingombro.

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BENGALA

Il mondo è di chi fugge (per due mesi) in India e, all’acme dell’illuminazione, incontra gente di Maresca, di Pontelungo, di Cècina, di Milano, di San Felice, di Akron (Ohio), l’ex cantante dei mattiabazar, e ridiscende le pendici dell’Himalaya con una volvo nera, schizzettata della melma grigia di cenere del Gange, dopo aver bruscamente scacciata dal cofano, addormentata, una magnifica tigre.

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