L’Empia Mano, Baudrillard, il multiculturalismo

Non è mia l’Empia Mano.
Non è mia la Mano Empia che tracciò con l’orrendo strumento, l’evidenziatore color Giallo Tassoni che io mai usai nemmeno negli anni dello studio universitario e nemmeno sui libri di mia proprietà, al massimo una leggera sottolineatura a matita o una breve nota a margine, una riga sul libro di Baudrillard (l’illusione della fine) gentilmente prestatomi dalla biblioteca comunale di Buggiano.
A quella mano empia sento però di riconoscere, stante la condanna dell’odioso e incivile gesto, di aver sottolineato una frase che anch’io avrei sottolineato.
Perché siamo circondati da parole abusate e Multiculturalismo è una di queste. Circondati da chi ne abusa quotidianamente. Ed è un abuso che significa in realtà “inculare il prossimo”. E sono gli stessi che abusano dell’idea di pluralismo, di populismo, di demagogia. E con la storia del multiculturalismo, come con quella delle differenze, cercano di buttarlo in culo (mi permetto questa espressione colorita perché niente spiega bene come questa espressione) a chi per secoli è stato colonizzato, sfruttato, taglieggiato, depredato, con una modulazione diversa del colonialismo. Ritengo che l’idea di multiculturalismo, così come circola nei paesi occidentali, sia solo un modo per convogliare nell’immaginario comune l’idea della legittimità esclusiva di diverse sfumature umane comunque tutte riconducibili all’idea di uomo/consumatore/giocatore preteso dal tecnocapitalismo. Un modo per coinvolgere le grandi masse di predati nella legittimazione di massa del carattere predatorio del capitalismo nella sua fase finale ideologica. Che il multiculturalismo non sia una produzione postcoloniale è provato dal fatto che non è un’idea condivisa. Principalmente da chi in occidente è minoranza, e fatica farsi integrare e a sua volta non integra dove è maggioranza. E in occidente non si crede realmente al multiculturalismo. Si cerca di crederci.
A proposito di multiculturalismo condivido quanto scriveva Christopher Lasch ne “La ribellione delle élite“, cioè che 《…in assenza di standard comuni la tolleranza diventa indifferenza e il pluralismo culturale degenera in una specie di spettacolo estetico in cui possiamo anche assaporare con il gusto del conoscitore le curiose costumanza del dei nostri vicini, ma non ci prendiamo il disturbo di esprimere un qualsiasi giudizio sui nostri vicini in sé, in quanto individui.》
Certe culture sono per loro struttura (non ho detto natura, non pensate natura) in conflitto. La natura serve ora all’una, ora all’altra, per legittimarsi nelle argomentazioni nebulose, nelle richieste irricevibili. Dietro ogni “cultura” ci sono scelte morali stratificate che niente hanno a che fare con la pericolosissima natura. E le scelte morali sono spesso in conflitto tra di loro a causa delle radicali differenze nelle finalità delle scelte. Non può esistere una macrostruttura che permetta loro una sempiterna e pacifica convivenza. Né credo sussista la possibilità di uniformare, o assimilare, tutte le forme culturali a quella dominante.

Fortunatamente?

 

 

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Coloro che credono di avere assolutamente ragione

Nel suo libro intervista/confessione La notte sarà calma Romain Gary affermava di essere “contro tutti coloro che credono di avere assolutamente ragione”, e attribuiva la paternità dell’espressione ad Albert Camus.
Mi coglie la curiosità e cerco il testo da cui può provenire la citazione di Gary. E trovo una serie di articoli di Camus, che non conoscevo, usciti per Combat e raccolti nel 1948 sotto il titolo Ni victimes Ni bourreaux. Camus scriveva esattamente che “Nous etouffons parmi les gens qui croient avoir absolument raison, que ce soit dans leurs machines ou dans leurs idees – Noi soffochiamo in mezzo a persone che credono di avere assolutamente ragione, sia che si tratti delle loro macchine o delle loro idee”. Ciò che soffoca non siamo esattamente noi, parlo al plurale per simpatia verso l’autore, quanto il tentativo, quasi sempre impedito, di far valere le ragioni di un discorso altro, se non di significato diametralmente opposto, almeno strutturalmente diverso. Metodologicamente non riducibile all’ingranaggio della lingua di plastica utilizzata dal gruppo dominante (ma io parlo dei tempi di ora, non dei tempi di Camus. Dei nostri tempi di moderazione, liberaldemocrazia, tecnofinanza, debito insanabile…). Al momento attuale, alle idee e alle macchine, potremmo aggiungere il credo religioso, i gusti letterari, i diktat delle commissioni tecniche e la fede calcistica, tanto che si può presumere che anch’essa, al pari di quella religiosa, finirà per non poter venire irrisa o messa in discussione, né sul serio, né per scherzo. Che per dire “Juve Merda” si correrà il rischio di essere assassinati (in realtà è già così, ma sospetto che il calcio non c’entri davvero…). Che scomparirà del tutto l’ironia e la sua divisione veramente utile, l’autoironia.
Si diceva di quelli che credono (non pensano) di avere sempre ragione. Una schiera composta in larga parte da quelli che ritengono valide le proprie argomentazioni solo e soltanto a causa di una scelta ideologica e/o una scelta di convenienza, di posizionamento interessato. Che avendo scelto una parte non hanno mai ritenuto necessario esaminare accuratamente le proprie posizioni, che sono poi quelle fornite con la bandiera, l’elmetto e il cestino per il picnic.
Preferiscono quindi il denigrare al confutare. Condannare sommariamente ogni difformità anche lieve dal proprio sistema di pensiero, presunto o reale, ben padroneggiato o solo mutuato in superficie. Aderiscono senza mai discutere, se non quel poco che si ritiene di potere per salvare le apparenze. Muovendo flebili obiezioni che siano riconducibili alla gamma di differenze istituzionali, quelle tollerate dal pluralismo di facciata di ogni sistema di potere democratico. I grandi sostenitori dell’acriticità. E per questo si sentono autorizzati ad ogni aberrazione linguistica, a tutte le forme di violenza verbale previste dal manuale della spregiudicatezza. Denigrare sempre. Mai confutare.
Eppure denigrare senza confutare è un po’ come traccheggiare senza trombare.
Un po’.
L’altro po’ come essere stupidi.
Ni victimes Ni bourreaux - Albert Camus
Ni victimes Ni bourreaux – Albert Camus

La Fiera dell’Urto di Vomito | Andrea Betti ne “La Felicità Terribile”

Ri-Pubblico questo memorabile testo di Andrea Betti proprio adesso, in questi giorni in cui c’è andato di moda scavare a fondo nell’inchino della Madonna al capoclan. Qualcuno avrà scomodato il ritardo culturale, molti si saranno sentiti sicuri tra i morbidi guanciali del loro progressismo alla buona, certi che le Madonne aborriscano essere portate sul baldacchino davanti alla porta di casa dei malavitosi. Nessuno che invece si concentri sul contenitore che le madonne e la mafia condividono.

Ne “La fiera dell’urto di vomito”, testo scritto sul finire degli anni novanta del secolo scorso, Andrea Betti traccia uno scenario più che possibile e più che reale di una festa di paese della laicissima, comunista un tempo, democratico/progressista al momento, Toscana. Terra di sagre, bestemmie roboanti, fagioli rifatti e crostini neri, terra in cui fu inventata la faziosità e dove imperano l’invidia, l’avarizia, l’ignoranza e un sistema di potere implacabile ed arrogante. Ove le madonne immaginarie si inchinano davanti alla casa del dirigente, perché la madonna non è mai nemica del capo esattamente come gli intellettualucci organici non sono mai in contraddizione col potere, anzi ne suffragano ogni mossa con la loro debole, quindi giusta, voce.

 

Questo ed altri testi di Andrea Betti sono stati pubblicati nel volume “La Felicità Terribile/Zucchero Spinato” uscito poter Ass Cult Press lo scorso anno.

Questo l’indirizzo per saperne di più sull’autore: hamonveg.blogspot.com

Chi lo volesse mi scriva all’indirizzo alla voce: contatti.

 

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La Fiera dell’Urto di Vomito

Benvenuti alla fiera dell’urto di vomito,
dove i manifesti son schizzi d’amore e le lotte dei Galli e le scommesse, per sciccheria, si fanno in francese avec un sanglant chemi-sier de Gautier le blanc chemisier, maintenant rouge
Rien vas plus – il giuoco è fatto, la beccata nella pupilla avversa, le creste macinate nell’agone
e l’imbonitore fava, dietro al bancone de’ panforti e de’ sanguinacci. Attraverso torroni, croccanti, brigidini e cilinghe infestati di sudore, le braccia pelose d’avventori donne, uomini e bambini, unti dalla purpurea benedizione d’una Processione, altalenante trofeo di Vergine in ciclo
Vergine in lagrime, sangue & arena. Sorretta da Chierici edonisti impasticcati la miracolosa preme il dolce calcagno sulla testa recisa d’un Toro scatenato e poi scannato in sua grazia, ed il suo occhio bufalino e opaco vede e riflette:

– omuncole in sciarpina rosa e piumino totale, gonnella in gabardina macchiata di bistro di mammà e cioccolatone negro strafondente, richiama il colore dei denti dei quattro Carabinieri in alta uniforme e bassa lega, pennacchio al cielo, fuoco d’artifizio retrostante… fa cilecca… moccolo gutturale del fuochista indigeno in tuta d’olio bono e olio di macchina, l’ascella pezzata Esso e la mascella spezzata,
– la ginnasta giovina sul tortino a tamburo esegue le grand-jetè: le madri piangono
– al pianoforte a pila la Sig.ra Gori con le dita smaltate e i ricignoli tinti di rosso, alita bunker, dirige con piglio emostatico, ferreo, indossa occhiali con catenella d’oro zecchino D’oro, gli amanti delle madri palpano culi stupefatti di figlie tredicenni, là , dove duole il brufol grosso –
– giovin signori in scuter e piattoni aerodinamici sfoggiano gelatine kevlar, colli sudici, e fauci spalancate sull’oblio cenobitico di hamburger di soia e lucertole vive, dispensati da un harekrsna: offeso per l’aggiunta animale al suo prodotto esterno lordo, lamenta un odio non corrisposto, non provato, mai spentosi. Inutilmente gorgheggia litanie rivolto a colei che mostra la carie del sorriso, come un ventre sensuale costellato di punti neri che chiama NEI e stelle implose, nane bianche al largo da ogni troiaggine sottocintura, sotto il fiocco del top stretto al grasso seno come nuove costole, per nuove genesi di un terzo sesso, il suo, maremma malaria! dalle cliniche di Casablanca al pronto soccorso mobile in Piazza: la Misericordia indossa giacche arancioni catarifrangenti su fieri ragazzoni briai, intenti a porgere impacchi ghiacciati ai rissosi del Biliardo, intellettuali della geometria di ogni tappeto verde coi polpastrelli intrisi di tre a mattoni e due di picche, esperimentatori di Grappe nardini ed estere doppio-malto esterrefatte turiste circumpolari decompongono e ricompongono la logica del Caratteristico e del Pittoresco, in un idioma piallante pieno di g e di k, ricostruiscono il paesaggio secondo i criteri Kantiani della cartolina, mandata agli amici per fargli dire, invidiosi:
“GKGK KGGGKK GKGHGKKGGGHGKKKGHKKKK!!!”
Acrobati e trapezzisti eroinomani, agguantano al braccio, piroettando la Soubrette di tutti gli Sballi, e i balli lisci fra damigiane di vuoto festeggiano alticci, la nascita della Tragedia e della figlia del Maresciallo, Itaglia, portata in trionfo dal vincitore universale del torneo di briscola a cui tutto il mondo deve svariati cognacchini e caffè – dalle sbarre di scantinati mugolano significativamente autoclave non invitati intanto crolla una palazzina in periferia, sventrata dai gas del suicida: trionfò la sera scorsa, nella pugna dei Borlotti rifatti salvia, ovo e scalogna di quella NERA, degli orti sempre più verdi di ogni vicino frontiera avversa di persiane sbatacchiate e persone abbacchiate sui coiti vertiginosi dei giòvani trsgrssivi a capello sciolto sotto la pioggia che rovina la festa e muta in fango i giardini fioriti.
– Cani Idrofobi nel buio delle logge del Comune ringhiano ad assenti testimoni di Geova; loro gli vendono Watchtower e quelli si convertono, asportandosi chirurgicamente, con un morso al cuore, l’odio dal loro petto. Un morso al petto come quello che sentì Ruggero nel vedere, cristallizzate chiazze di sperma altrui, sulle calze ad uncinetto della su’ fia GiovannaD’Arco, le sue lacrime non spensero il rogo, nemmeno la confessione al prete spippato né la penitenza sussurrata dietro una colonna fra la navata centrale, il pulpito e la tranvata finale: essa ebbe a inginocchiarsi sulla grata dei Matti, nascosti nelle cripte-cottolengo del Duomo, frutti dell’abominio di rapporti consanguinei fra mariti e mogli per bene, mugolava ancora le Glorie quando venne sorpresa. La lingua del matto, rigata di ruggine, ancora attaccata alla grata traboccava a scassadenti – la processione entra in chiesa lo sdegno pervade 4 dei 12 portatori sani di madonne, fra cui Ruggero – tutti fratelli senza saperlo,
il volto di porcellana della Vergine, riflette la luce delle candele alieno ad ogni peccato e ad ogni giustizia, ri-piange prima di sbriciolarsi al suolo – il prete spippato bestemmia
le grida della peccatrice si confondono a Romagna Mia, il cantante, offeso
alza la voce.

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Andrea Betti – La Felicità Terribile
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Andrea Betti – hamonveg.blogspot.com
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La Felicità Terribile – Andrea Betti (Ass Cult Press, 2013)

Non solo il debole di spirito viene sfruttato | da “Cemento” di Thomas Bernhard

[…]
Adesso li dissuaderei e basta da tutto quello in cui credono,  il partito socialista ad esempio, o la chiesa cattolica,  entrambi oggi come sempre associazioni prive di scrupolo per lo sfruttamento dell’uomo. Ma è  profondamente falso dire che solo il debole di spirito viene sfruttato, tutti vengono sfruttati, questo d’altra parte è tranquillizzante, è la compensazione,  forse si va avanti solo così.
[…]

da “Cemento” di Thomas Bernhard
trad. di Claudio Groff

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