Il reclutamento della classe dirigente

Il reclutamento della classe dirigente

Sarebbe in errore, a mio parere, e ingenuamente cadrebbe in una trappola apparentemente razionale chi credesse, nel confrontare due classi dirigenti, una formata in una delle molte Scuole di Alti Studi sparse nel mondo, l’altra selezionata da un portale online, di scorgere una differenza discriminante nella qualità dell’istruzione ricevuta ignorando al contempo la loro sostanziale similitudine. Perché se è indubbio che i ben formati abbiano formazione certificata e capacità presumibili, pare altresì indubbio che finire a far parte di una classe politica esautorata della possibilità di produrre politica, idee e dispositivi in un contesto governato per mezzo di decreti e cabine di regia (già da prima della presente Pandemia) ne renda inutile ogni potenzialità. Rendendo invece di somma importanza ciò che li rende sostanzialmente simili ai descamisados della politica selezionati sul portale. Ovvero la disposizione a ricevere delle direttive indiscutibili di provenienza ignota (perlomeno per l’osservatore da casa) e ancor più importante l’essere sradicati dal proprio contesto di appartenenza e la rinuncia a essere espressione e di conseguenza ricevere le istanze di qualsivoglia gruppo sociale. Fenomeni quello della de-democratizzazione delle istituzioni e dello sradicamento della classe dirigente che non ho certo la pretesa velleitaria di introdurre io, ma che sono già ampiamente discussi dagli anni 50 e che nel contesto attuale si manifestano solamente in modo più limpido incontrando le voci amplificate dal grande flusso di comunicazione, talvolta distorte artatamente, di alcune delle eminenze pensanti del nostro sciagurato presente.

La dittatura dell’uomo normale

Un uomo normale, uno che va a lavorare, che costruisce da solo le possibilità senza cercare scorciatoie, uno che cerca di essere onesto, disorganico, non compromesso, vede un funerale in tv e si rende conto una volta di più e più nitidamente che è circondato da gente di merda aiutata da altra gente di merda, avverte il pericolo, vacilla, è tentato dalla risposta autoritaria, invoca prima silenziosamente l’avvento della dittatura militare, poi ne parla con altri interlocutori al pari di lui insicuri, poi prende coraggio e urla forte a tutti che sarebbe necessario sterminare tutta questa feccia impestata e come per magia succede. Avviene la dittatura e per le strade c’è gente armata che cerca della gente da sterminare. Dopo un iniziale entusiasmo l’uomo normale si rende conto che questi che girano armati sono gli stessi che prima giravano armati di nascosto. Che è proprio quella gente di merda di cui invocava lo sterminio quella a cui adesso deve un rispetto istituzionale senza discussioni.

Finisce dunque per portare rispetto senza discutere, aderisce consapevole di non aver avuto la forza di attendere un pensiero più nitido, non inquinato dalla spinta emotiva, torna a casa dal lavoro e al figlio insegna ad aderire, a non discutere, tutto per la salvaguardia del bene più prezioso.

A sera piange da solo chiuso nel cesso, fingendo lunghi bisogni.

Se ripenso a Marino (ex Sindaco di Roma)

Se ripenso a Marino ex sindaco dimissionario dell’Urbe, in questi giorni in cui gli alfieri del nuovo e dell’onestà inedita promessa si perdono in traccheggiamenti, nomine e temporeggiamenti dal sapore antico mentre invece il vecchio sistema è asserragliato dentro un fortilizio fatto di manovre e maneggi, quelli che da sempre tengono a debita distanza i rappresentati, ripenso a una massima da Esodo (23, 1) che mi ero appuntato tempo addietro. “Non associarti con gli iniqui per fare da falso testimone”. Non è perché nutra particolare stima di Marino come uomo politico o simpatia per Marino in sè. Non lo conosco abbastanza. Eppure mi va di ritornare su questa faccenda paradossale in cui si lincia un parvenu, o meglio un dilettante, e col linciaggio, a posteriori, si cancella il ricordo di tutti i trafficoni, ammanicati, superprofessionisti della corruzione e della predazione della risorsa pubblica (distribuiti uniformemente) che hanno consentito ciò che si legge da anni su giornali, riviste e libri di denuncia e di cui si sente parlare da sempre in tv e dall’uomo della strada e su cui non c’è bisogno di aggiungere altro. Se è giusto cacciare Marino non sarà giusto anche ricusare tutti, proprio tutti, quelli che hanno avuto a che fare con le giunte precedenti?
E allora chi resta per governare l’Urbe?

Foto pubblicata su Wikipedia Commons per l’uso gratuito (https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:La_lupa_a_campidoglio.JPG)

La Scorciatoia Emotiva

La scorciatoia emotiva, così come la sua cugina, la scorciatoia cognitiva, non porta da nessuna parte. Sull’onda dell’entusiasmo (altrui) uno crede di imbarcarsi in una divertente e inarrestabile scampagnata insieme a dei simpaticissimi e dinamici Compagnoni mai visti e conosciuti, con cui sintonizzarsi in una fraterna fiducia fortificata dall’azione. Senza sforzo alcuno, né di analisi, né del corpo immobile di cui si anima solo l’arto superiore destro o sinistro. Una vera scampagnata col Torpedone pagato, cori  da gita  scolastica, a rimorchio degli eventi.

Si trova poi nella merda quell’Uno. In situazioni complicate (non complesse) dense di problematiche di difficile risoluzione. Comunque sprovvisto dei più elementari strumenti atti a fronteggiare situazioni e pericoli per cui mai prima si era preparato. Partito per una scampagnata si ritrovò in uno scontro a fuoco. Aveva in mano la tessera dell’autobus. Questo scriveranno di lui sui giornali. Oppure sulla lapide.

In un mare di merda. Nella grande tempesta di merda quando la merda tira da tutte le parti.   Insieme a persone sconosciute, animate da propositi oscuri, diverse da quei sorridenti ed entusiasmanti compagnoni con cui si era imbrancato appena qualche giorno prima. Non certo di volerne più sapere e quasi certo di volersi tirare indietro. E non passa tanto tempo prima che sia “troppo tardi per tirarsi indietro”.

Ma di che si parla?
Si parla di immagini, di adesione apparentemente spontanea a un movimento d’opinione, di propaganda, di aspettative tradite, di quanto sembra contribuire alla costruzione dell’immaginario collettivo, ma che a ben vedere lo smembra, lo rende elastico e gommoso fino al punto di permettergli di contenere e tollerare la compresenza simultanea di molteplici intollerabili fattori.

Si parla di fotografie. Del loro uso. Ma anche di dinamiche di spostamento del consenso. Metaforicamente una scampagnata. Liberata dal peso dello spostamento fisico paradossalmente diventa un porto sicuro e l’adesione senza rischio alle campagne di sensibilizzazione rende infinitamente insensibili. Infinitamente resistenti. Resistenti a tutto. A tutto ciò che si può vedere. Che è tutto ciò che al momento abbiamo. Da immaginare resta poco o nulla. Tutto l’immaginabile è travalicato dall’infotainment.

E i compagnoni?

Se vuoi abbattere il tuo nemico, accertati d’aver prima abbattuto il suo acerrimo nemico. D’averlo perlomeno persuaso a farsi da parte.
Perlomeno.

 

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Festival Culturali e Barbarie

Premessa: avevo scritto la prima parte su facebook in concomitanza con i lavori parlamentari finalizzati all’elezione dell’ultimo presidente della Repubblica Italiana (che io ho definito più volte l’Ultimo Presidente). Ho poi continuato in seguito e dunque questo scritto è diventato assolutamente inattuale.

Più che le manfrine concomitanti con l’elezione dell’Ultimo Presidente della Repubblica, mi fa triste ripensare alle parole del procuratore Gratteri che ho ascoltato ieri sera in radio. Parole in cui si udiva nitidamente, malcelata, una venatura di disperazione. Disperazione nel dover raccontare dell’impossibilità di una azione di contrasto al crimine organizzato e dell’assenza, per convenienza diffusa, condivisa, trasversale, di politiche culturali volte alla formazione di una cittadinanza consapevole.

Non è necessario che io aggiunga niente a quanto detto da Gratteri, spiegando le ipotetiche conseguenze di quanto da Gratteri stigmatizzato. Sappiamo tutti da molto tempo cosa significa tutto questo che ci sta succedendo intorno e che talvolta vorremmo contribuire ad arrestare, ma che non si riesce ad arrestare. Molto spesso non riusciamo nemmeno a calcolarne esattamente la portata e ci chiediamo come sia stato possibile che solo i peggiori si siano ritrovati a dover decidere e deliberare, sperimentiamo quotidianamente l’avvilimento che deriva dall’impotenza operativa e si finisce a riflettere sulla necessità del non fare che accomuna pensatori di tutti gli orientamenti1)Soltanto tenendo presenti le mie ultime letture potrei indicare Alain Badiou e Julius Evola. Ovviamente per diverse ragioni..

Lo sappiamo esattamente come Pasolini affermava di sapere chi erano i responsabili del golpe, delle stragi, della strategia della tensione. Esattamente come lui lo sappiamo, ma non abbiamo prove. Lo sappiamo e basta. Ma a  differenza di Pasolini abbiamo un unico interlocutore. Noi stessi. Ci parliamo di una cosa che sappiamo per cercare di capire come è meglio fare per ridurre quello scarto che ci divide dal centro dell’azione politica. Che sembra al momento impenetrabile e che al momento sembra bene non penetrare.

E voi Pezzi di Merda che vi fate alfieri del realismo e della spregiudicatezza un giorno dovrete renderne conto. Prima che agli altri a voi stessi. Perché ci sono mostri che, una volta generati, non possono più essere affrontati.

Si può quindi peggiorare perseguendo apparentemente il miglioramento. Peggiorare non in senso assoluto quanto in relazione proprio ai parametri che spingono l’utente medio, che li condivide e li coltiva, a tentare la carta dell’apparente miglioramento.

Ad esempio cercando di convincere il prossimo di essere un sincero progressista, pluralista, liberale, pieno di fiducia nelle umane possibilità, sostenitore del capitalismo, del multiculturalismo, delle differenze che arricchiscono e al contempo tradire una disposizione d’animo, un uso linguistico in aperto contrasto con quel tentativo. Esempio: un militante di una formazione politica rivale, una formazione populista, viene ritratto in una posa comica. Le sue idee ridicolizzate sulla base del suo aspetto fisico. Ma la riduzione dell’idea altrui alla deformità fisica, e necessariamente morale, è appena un passo prima la legittimazione dell’eliminazione fisica. Tutto questo è pane quotidiano per il progressista d’oggi. Che alla bisogna si appropria di argomenti che sembrerebbero non appartenergli per poi disconoscerne l’uso subito dopo.

Immagino che il narrarsi progressista faccia stare meglio. Sia consolante per chi segretamente alimenta idee, e talvolta pratiche, innominabili. Perché il progressismo, come il suo cugino il Riformismo, è l’iso 9000 della presentabilità politica. La norma dell’accettabilità svincolata da una reale comprensione reciproca.

Chiariamoci, essere progressisti non è la condizione sine qua non della presentabilità politica. Si può non essere progressisti. Esserlo stato, ma adesso non più. Non essere più progressisti perché si ritiene di aver raggiunto quegli obiettivi che ci si prefiggevano nella propria azione politica, al cui raggiungimento si pensava di voler contribuire. Semplicemente perché si è cambiata idea. Si può non essere mai stati progressisti. Non tutti quelli che hanno una idea del modo sono di sinistra. Lo studio non conduce necessariamente alla sinistra. Non necessariamente a questa sinistra italica che governa con il proprio fantomatico antagonista. Eppure è un pregiudizio radicato nella sinistra italiana quello che fa pensare che non esista altra cultura, altro mondo, altra narrazione aldilà di quelli che gli appartengono o che rivendica come propri.

Si può quindi peggiorare perseguendo apparentemente il miglioramento. Ad esempio, frequentando i festival culturali dove un ristrettissimo numero di oratori è convocato a parlare di un ristrettissimo numero di idee ad uso e consumo inconsapevole di un gran numero di persone intenzionate a non finire i propri giorni in preda all’ignoranza e allo sgomento derivante dal non riuscire a comprendere il mondo circostante. Ma come pensare di comprendere un mondo reso astutamente complesso e complicato con quel piattino di ideuzze insipide, gratificanti e consolatorie che offrono i festival culturali?

Tutto inutile.

Il festival culturale è come il credito al consumo. Se quest’ultimo dà l’illusione di non essere poveri, procrastinando il momento del saldo a un termine sempre più lontano, il primo dà l’illusione di non essere ignorante. Ignorante della specie peggiore. L’ignorante che non vuol far credere alla propria ignoranza, che vuol vivere al di sopra delle proprie possibilità intellettuali e cognitive (così come l’uomo debitore sceglie la schiavitù di una vita al di sopra delle possibilità economiche). Non realmente interessato alla fatica e all’impegno di uno studio serio, commisurato alle proprie possibilità, ma pieno di quella volontà che ampia anche le possibilità di partenza. L’ignorante che è interessato solo all’outlet delle idee. Ma il mercato delle idee è come il mercato delle verdure. Dipende molto dalle strategie di approvvigionamento. Certe idee finiscono per scarseggiare. Contro alcune si fanno campagne denigratorie.  Quelle più care finiscono per essere quelle meglio presentate. Che talvolta finiscono per marcire alla svelta. Magari sono state in freezer, non sono idee fresche.

Sulla scorta dunque di questo inestimabile patrimonio fatto di 4/5 idee si cerca di resistere allo sgretolamento del mondo edificato in secoli di faticosissimo lavoro manuale, sforzo intellettuale, elaborazione tecnica.

Ma non si resiste.

Il mondo si sgretola.

La barbarie ri-avanza.

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Ho usato una nota non per darmi arie accademiche, ma per testare il plugin che automatizza le note a piè di pagina.


GranTeatrodiOklahoma55

References   [ + ]

1. Soltanto tenendo presenti le mie ultime letture potrei indicare Alain Badiou e Julius Evola. Ovviamente per diverse ragioni.