Vendete gli abiti con cui hanno vestito
la vostra vita e il vostro sonno.
Vendeteli agli specialisti del riciclaggio
e come promozione includete nel prezzo
i biscotti che vi hanno avvelenato
e la sorpresa che vi colse
quel pomeriggio che vostro padre
confessò apertamente di non essere
niente di più che l’uomo che vi generò
e confessando pianse e alla fine
aggiunse che era giusto che sapeste
che vi avrebbero strappato tutto
in cambio di quei vestiti che un giorno
avreste fatto bene a vendere prima che
vi regalassero anche i mobili e gli optional
e che vi strappassero veramente tutto.
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Il Crollo degli Addendi
Simone Molinaroli
Ass Cult Press/Dizlexiqa
2006
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Un testo inedito del 2015 su cui stiamo lavorando con Alessio Chiappelli in vista dell’ipotetico secondo volume del nuovo progetto DESIDERANTES.
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SONO SUONI
Sono suoni. Non sono cose.
Né umani, passi in avvicinamento.
Sono suoni usciti dal congegno
che produce suoni e consenso.
Il malore innominato che curva,
in piega esce di scia e avanza,
guadagna minuti vitali e prima ________________Sempreprima
del suo padrone e portatore
taglia il traguardo e affonda
risoluzioni e convenzioni,
convenevoli e conventicole.
C’è la musica e c’è il barile;
la paventata guerra fa star tutti a cuccia.
Buoni buoni come il cane alla catena
che è un buono sui generis,
il buono che una volta liberato
sparge merda, dolore e ingiuria.
Andiamo Via! Il luogo è affollato
e non è il numero a preoccuparmi, ma il Suono.
Il belato zelante e servile imbracciato come un’arma
da una moltitudine incerta e amante dell’assenso,
che alla bisogna include
e per capriccio
stermina, condanna, ________________sanziona.
Brevemente sull’argomento “morte della poesia”. Brevemente e fuori tempo. Orgogliosamente non sul pezzo. Brevemente perché già innumerevoli autorevoli professionisti del settore si sono dilungati, chi sostenendo d’aver visto il corpo morto della poesia, la sua salma rigida e ghiaccia, neanche ben ricomposta, anzi, ulteriormente disturbata dagli innumerevoli e velleitari tentativi di votarsi alla sua causa. C’è stato chi addirittura ha sostenuto di averla vista spirare in diretta coi propri occhi e chi invece non ha lesinato sforzi per dimostrare che essa è invece viva, vegeta e gode di salute altalenante, ma viva.
Vedo più morta la prosa. Prodotta in serie nelle scuole di narrazione e scrittura creativa. I prosatori con i loro plot arresi all’ordinario, alla medietà di un lettore medio immaginario senza cognizione. Ma nemmeno i prosatori di batteria sono morti. Stanno come stanno. Stanno nella gabbietta, stanno del resto come i colleghi poeti tutti impegnati a sembrare tutti lo stesso poeta, svoltano le giornate e mettono insieme un pranzo e una cena con i loro libretti smorti. Ma questo non preclude l’apparizione improvvisa di uno scrittore di nerbo. Prosatore o poeta che sia. Animato da una irrefrenabile e incontestabile animosità. Non è morto nessuno di coloro che danno segnali di vita. Anche se sembra vita alla fine. O alla frutta come si dice in gergo.
Dire che la poesia è morta è dire una banalissima falsità. Si può essere vivi e zoppicare, andare malvestiti, agonizzanti e scombinati, tristissimi o felici di levata, quasi morti, ma al contempo essere vivi. La poesia allo stesso modo è praticata in modo banale, interessato, professorale, pedissequo, noioso, eccezionale, discutibile, luminosamente ispirato, e tutto questo non è proprio della morte. La poesia se ne va in giro in tutti i modi possibili immaginabili tranne che da morta. Credo che chi dice che la poesia è morta pecchi d’infantilismo intellettuale. È morto, cioè, tutto ciò che non è vivo come dico io. Infantilismo spesso interessato. Per cui si finisce ad apprezzare solo ciò che conferma la propria visione delle cose, ovvero un sistemino di pensiero che ci garantisce una minestra, un privilegio e una posa da conoscitore.
Una posa per l’appunto.
Due coglioni come due case.
E poi, come diceva Margo Channing (Bette Davis) in All About Eve allo sceneggiatore che faceva l’offeso, tutti gli autori dovrebbero essere morti da almeno trecento anni.
Scrissi questa poesia nel gennaio 1995. La guerra nei Balcani, che per me fu uno spartiacque emotivo radicale, era sul finire. Pur avendo vividi ricordi della lunga e sanguinosa stagione del terrorismo italico, ci furono elementi inediti nella guerra nei territori della ex Jugoslavia. Tanto da generare uno sgomento e una preoccupazione profonda. Elementi inediti di copertura mediatica, e uno sfruttamento massiccio e strumentale degli eventi sanguinosi che avvenivano oltre l’Adriatico, porsero all’attenzione della disattenta opinione pubblica degli europei d’Occidente una ferocia che a torto si pensava scomparsa col progresso, tanto da far sembrare anch’essa inedita.
Voglio chiarire che non è che sia importante cosa sia stata per me la guerra dei Balcani, ma se così non fosse stato non avrei mai scritto questa poesia.
Non mi ricordo in concomitanza di quale delle stragi provocate dai colpi di mortaio (o dalle mine antiuomo a seconda delle versioni) in mezzo alla gente in fila per i viveri, m’imbattei a notte tarda in una trasmissione televisiva, di ritorno da una tranquilla serata da studente universitario, in un filmato non bonificato ad uso dei telegiornali, in cui si potevano vedere le fasi immediatamente successive all’esplosione.
Dovetti chiamare nel mezzo della notte (era Fuori Orario la trasmissione) l’unica persona che sapevo mi avrebbe compreso e che probabilmente aveva visto la stessa cosa. Dovetti chiamare per essere sicuro di aver visto bene. Perché, nonostante l’infanzia durante la lunga e mai ben ponderata stagione delle stragi italiane, mai mi era capitato di pensare possibile un colpo di mortaio in mezzo ai civili in fila per il pane. Mai avrei pensato di vedere il corpo di un uomo senza mezza testa caricato su una Golf, di cui si potevano vedere, credo, la faringe e le vertebre cervicali.
Per molto tempo molte cose mi sembrarono insensate.
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UNA GUERRA VISTA DA LONTANO
Domattina il movimento sarà veloce.
Nessun problema tranne
un macilento senso di rovina
che prende lo stomaco.
Nessun turbamento nelle geometrie forsennate
dei capitani di vascello.
E se nevicherà mireremo gli amici
sdraiati per terra, calpestati dal mondo
nel riso e nel fumo nessun rischio calcolato
nessun coinvolgimento al bordo dell’esistenza
se non concederci la vista di macelli ordinari
al limite della banalità.
La rovina è la realtà
la menzogna di moderni Cortez
alla conquista delle Americhe
allo sterminio silenzioso dei vinti.
Una guerra vista da lontano
è come un tramonto visto dal vivo;
voltandosi scompare.
Ne rimane il puzzo,
ne rimane il rimbombo cupo
che diventa i fuochi di una festa,
la notte, oltre una collina.
Al puzzo, come in un cesso,
si fa l’abitudine.
Simone Molinaroli | www.simonemolinaroli.org l molinaroli[at]asscultpress.com
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