Mi ricordo che alla fine degli anni 70 nei bar si giocava a un videogame chiamato Defender. Ci giocavo anch’io. Nella sua semplicità il gioco prevedeva un dispositivo stocastico (l’iperspazio) per le situazioni di estrema difficoltà (le porte coi sassi si direbbe a Pistoia). Si poteva premere un pulsante e riapparire in un punto qualunque dello schermo. Ecco. Le milizie dell’isis hanno premuto quel tasto e casualmente, dalla famosa collina siriana, si sono trovati a “sud di Roma”. Così nell’immaginario collettivo indotto dall’incessante narrazione di uno scenario di violenza diffusa e incontrollabile.
Allo stesso modo, nello stesso immaginario, i nuovi occupanti dei palazzi del potere sembrano esservi arrivati premendo quel pulsante, proiettativi a loro insaputa, senza programmazione, da gente sprovveduta senza piani sul breve/medio periodo.
E nel medesimo immaginario l’elettore ha la colpa d’essere livido, rancoroso, ignorante, testardamente incompetente.
Nel medesimo immaginario la rovina di tutto è da imputare al Suffragio Universale.
Nel medesimo immaginario è bastevole frequentare un festival culturale per autoconsiderarsi, per osmosi, élite culturale.
Il dispositivo stocastico è una cosa divertente da bambini.
In ogni discussione tra colleghi, è inevitabile, arriva sempre qualcuno che ha scavato a mani nude nella miniera di diamanti, che ha guidato il bilico per 179 ore consecutive, che a 50 anni ha 44 anni di contributi, che ha fatto guerra di trincea sopravvivendo e utilizza queste sue sovrumane fatiche come paradigma per valutare l’intensità delle altrui difficoltà lavorative. Una furia dialettica alimentata da numerosi “sai una sega te!” e altrettanto innumerevoli “vai a sentire, vai! Alla bastianacci e shostakovich come si lavorava…” Dove ovviamente si rischiava di morire ogni minuto.
Racconti che tracciano scenari che sembrano strappati alle scene più strazianti de “Il salario della paura”.
E invece hanno movimentato i poponi per tutta la vita. I poponi e i ramarri.
Se ripenso a Marino ex sindaco dimissionario dell’Urbe, in questi giorni in cui gli alfieri del nuovo e dell’onestà inedita promessa si perdono in traccheggiamenti, nomine e temporeggiamenti dal sapore antico mentre invece il vecchio sistema è asserragliato dentro un fortilizio fatto di manovre e maneggi, quelli che da sempre tengono a debita distanza i rappresentati, ripenso a una massima da Esodo (23, 1) che mi ero appuntato tempo addietro. “Non associarti con gli iniqui per fare da falso testimone”. Non è perché nutra particolare stima di Marino come uomo politico o simpatia per Marino in sè. Non lo conosco abbastanza. Eppure mi va di ritornare su questa faccenda paradossale in cui si lincia un parvenu, o meglio un dilettante, e col linciaggio, a posteriori, si cancella il ricordo di tutti i trafficoni, ammanicati, superprofessionisti della corruzione e della predazione della risorsa pubblica (distribuiti uniformemente) che hanno consentito ciò che si legge da anni su giornali, riviste e libri di denuncia e di cui si sente parlare da sempre in tv e dall’uomo della strada e su cui non c’è bisogno di aggiungere altro. Se è giusto cacciare Marino non sarà giusto anche ricusare tutti, proprio tutti, quelli che hanno avuto a che fare con le giunte precedenti?
E allora chi resta per governare l’Urbe?
Foto pubblicata su Wikipedia Commons per l’uso gratuito (https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:La_lupa_a_campidoglio.JPG)
Non sono solito ascoltare illecitamente le altrui conversazioni telefoniche. Le ascolto solo quando sono in un luogo da cui non posso muovermi e il mio vicino parla a volume sconsiderato dei cazzi propri. E in quel caso le devo ascoltare per forza. Dunque a volte mi capita davvero di ascoltare involontariamente conversazioni telefoniche di vicini di posto in treno, di colleghi, di persone tra gli scaffali dei supermercati, al bar. Mi capita di doverle ascoltare perché sono condotte a volume inadeguato e in luoghi inadatti. Dunque le ascolto mio malgrado. E non capita mai di ascoltare una dichiarazione d’amore, una poesia recitata con perizia, il racconto di una memorabile rovesciata in una partita di calcio mai vista quarant’anni prima, la descrizione dettagliata di tutte le percezioni dovute a un bicchiere di vino, una canzone composta sul momento e telefonata a un caro amico. No. Non è mai niente di tutto questo.
Ed è una situazione che capita sempre più spesso quella di ascoltare le conversazioni altrui, tanto che a volte ci si intende una volontà di essere ascoltati, di essere registrati come viventi, una affermazione pubblica della propria individualità. Capita spesso di dover ascoltare le playlist dei bimbyminchia col telefonone che cambiano canzone ogni dieci secondi. A quel punto gli obblighi diventano due. Non potersi spostare ed ascoltare. Che è pure una condanna. Spesso è proprio una vera rottura di cazzo. E allora, dal momento che sono obbligato ad ascoltare, mi faccio un’idea, giudico severamente. Tiro anche delle conclusioni. Conclusioni momentanee, senza destinatario, senza scopo.
Inoltre essere messo a parte di segreti, siano essi incoffessabili veri segreti o solo manfrine dialettiche tese all’irretimento, mi mette a disagio. Essere messi al corrente di un segreto è essere zavorrati, una chiamata in correità, intrusione fraudolenta di un cavallo di troia nell’immaginario, una richiesta indebita di complicità, violenta trasparenza indotta dal vivere nel nostro presente panoptico fatto di reti sociali dematerializzate, dove tutto è simultaneamente esposto al giudizio di tutti nella ossessiva ricerca di riconoscimento. Come scriveva Baltasar Gracián “i segreti, nè si devono ascoltare, nè dirli” ed io mi attengo scrupolosamente a questo monito saggio.
Ma torniamo all’inizio. Al motivo per cui sto scrivendo.
Tempo fa mi venni a trovare in un parco pubblico di Pistoia (capitale della cultura 2017) con Leone, il mio giovane figliuolo. C’era alta densità di bimbi, alta densità di genitori, alta densità di telefoni cellulari. Alta densità di telefoni cellulari utilizzati in diretta. Alta densità di esaurimento. Alta densità di grida. Io e la borsa con le cose necessarie a un babbo occupiamo una mezza panchina libera e mi metto a vigilare sui giochi di Leone. L’altra metà della panchina è occupata da una mamma con bambino. Che a un certo punto impugna il cellulare e comincia una conversazione telefonica a voce altissima, letteralmente urlando dentro il telefono. L’interlocutore all’altro capo lo immagino stordito, paralizzato nel gesto di tenere il telefono verso il cielo tentando di disperdere quell’onda inarrestabile di discorsi sparati a un livello di decibel intollerabile. La chiamata continua per quasi tutto il tempo della mia permanenza al parco giochi. Ed è una escalation. La signora in questione si lamenta palesemente del proprio partner descrivendolo, davanti a una platea piuttosto vasta e ignorando che in paesone come Pistoia, nonostante sia stata dichiarata capitale italiana della cultura, la possibilità di trovarsi accanto a un parente, un amico, un conoscente, un impiccione che aspettava solo l’occasione di venire a conoscenza di un particolare segreto da rivelare istantaneamente durante una sessione di gossip a sera tarda al pub, quando la conversazione si fa stanca e non c’è niente di meglio che parlare delle vite altrui, è altissima, come un insopportabile buono a nulla, un grande navigatore di divani, dedito all’alcol. Questo particolare per la signora è importantissimo. Lo investe di grandi aspettative nel suo tentativo telefonico di sputtanare il compagno perché insiste ripetutamente sull’argomento fino ad arrivare all’argomentazione definitiva. “Certe sere beve addirittura un’intera bottiglia” dice con disprezzo. Questo insistere sull’intera bottiglia come unità di misura della dissoluzione umana richiama la mia attenzione fino a quel momento discontinua. E penso in silenzio alcune cose. Prima di tutto spero che sia vino bono ché, si sa, il vino poco buono fa male e comunque intristisce. E poi penso anche che nella lamentazione la signora investe la bottiglia di troppa importanza e comunque a mano a mano che la sua conversazione telefonica procede, e la protagonista si inoltra in territori pericolosi che non ho alcuna intenzione di ascoltare, io intravedo nitidamente 4/5 motivi per cui potrebbe essere il compagno a lamentarsi e 4/5 motivi (gli stessi) per cui lui potrebbe decidere di bersi una bottiglia tutte le sere, anche più di una bottiglia e decidere di darsi anche alla droga pesante. Pensato questo ho cambiato panchina, nonostante la prima fosse all’ombra e in posizione strategica, per raggiungerne un’altra dove non ci fosse l’accompagnamento della telefonata e finire comunque per dover ascoltare la sua telefonata come un elemento dominante, nonostante il vociare dei bimbi, il rumore dei motori in lontananza, qualche clacson, adolescenti rumorosi, uccelli, cani.
Pagare un caffè, oppure una birra, oppure una spuma bionda, oppure un cocktail (solo per quelli che scrivono poesie più pregiate) al bar con una poesia: se aspetti che qualcuno lo stabilisca per decreto non ha più lo stesso valore e nemmeno lo stesso prorompente fascino rivoluzionario e provocatorio. Pagare invece con la poesia dove non si potrebbe, dove non è attesa o prevista. Questo è dare valore alla poesia, costringere chi se la piglia perlomeno a leggerla per capire se ha fatto un buon affare. Sempre che questo dargli un valore di moneta sia considerabile un valore. Mostrare, se mai ne abbia bisogno, le sue ragioni. Perché la poesia abita molto più spesso dove non è invocata che dove invece è nominata spesso, ma il più delle volte a sproposito. Ad esempio nei caffè letterari. Ad esempio nei portali per addetti ai lavori.
Non è per gagaroneggiare e voler sembrare quello che è arrivato prima, che in realtà, come si dice a Pistoia, siamo arrivati tutti èsimi, ma solo per dire che con la poesia si paga, quando è possibile, dove essa non è attesa. Dove la poesia sia frattura, discontinuità, innesto insensato. In quei luoghi dove si è invitati a pagare con la poesia la poesia è nulla. Perde anche il valore di moneta di scambio che attribuito alla poesia è un valore solo se inatteso. Se sorprendente, se predica ai non convertiti e non, come scrisse Andrea Betti, predicare il piscio ai reni e l’amore agli innamorati.
Comunque io e David Napolitano pagammo alcune birre con due poesie. Doveva essere alla fine degli anni novanta. Il fatto che non mi ricordi esattamente l’anno e in quale delle occasioni in cui Io e David Napolitano ci siamo trovati a Rimini è indizio che ci si trova davanti, o dentro, all’episodio di una vita e non semplicemente della ricerca di un riconoscimento ufficiale all’interno del mondo delle lettere. Insomma, andammo a Rimini per cercare un editor di una casa editrice considerata al momento cool. Editor il cui nome ci era stato indicato da un comune amico che lavorava nel settore. Andammo al Block 60 per la presentazione di un libro di una giovane scrittrice che a giudicare dalla promozione che l’editore aveva messo in campo forse veniva pensata fenomenale, ma di cui in realtà si perse ogni traccia all’istante. Parlammo con l’editor, lasciammo ciò che dovevamo lasciare, parlammo del nostro lavoro, ma anche di quello degli amici, una vocazione, quella dell’altruismo, decisamente antieconomica in un ecosistema popolato perlopiù da ambiziosi e opportunisti. Lasciammo comunque all’editor una serie di dattiloscritti di tutti gli autori di Ass Cult Press. L’intento era quello di proporre un’antologia. La missione era terminata e dunque cominciò il resto.
La serata si trasformò poi in tutt’altro. Ed il tutt’altro era la nostra vera vocazione. Il tutt’altro da cui discende la letteratura se non vuol essere solo letteratura come scritto nell’epigrafe del primo capitolo di “Primavera Nera” di Henry Miller. What is not in the open street is false, derived, that is to say, literature. Un lungo vagabondare per bar, locali, incontrando persone mai conosciute prima, mai preventivato di conoscere. L’unica sicurezza di quella serata era il biglietto per il treno del mattino.
Gran parte della serata la passammo senza soldi. Incontrando persone di inaspettata generosità, fino a ritornare, a fine serata, in uno dei bar dove eravamo stati quando ancora avevamo della moneta da spendere. Ci avanzavano i biglietti del treno e i soldi per due caffè. Seduti al bancone ordinammo i due caffè e ci mettemmo un po’ di tempo per finirli. La titolare del locale ci chiese se avessimo intenzione di bere altro e noi rispondemmo di sì, ma che i soldi bastavano per i due caffè.
Dietro il bancone c’era un tizio americano, dalla confidenza con cui si muoveva nello spazio si sarebbe detto un amico della titolare, stazionava lì dietro a farsi drinks e a elargire simpatia e quando sentì che non avevamo soldi mise la mano in tasca, ne trasse diecimila lire dell’epoca e, senza neanche chiedere, offrì due birre. Seguirono altre birre che alla fine David si offrì di pagare con due poesie. La transazione andò a buon fine e tutti vissero felici e contenti. Qual’è la morale della storia? Non c’è una morale perché è una cosa successa davvero. C’è però che a far poesia e mutuare strategie promozionali sbagliate si finisce per diventare le strategie per abbandonare la poesia e la vita. Meditate.
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