L’Online (prospettive per l’Uomo con l’universo nel palmo della mano)

L’Online, dove per online intendo tutto ciò che sta simultaneamente in rete, l’intelligenza collettiva, le piattaforme per incontri, i social networks, infiniti database musicali e archivi video, tutti i cazzi privati di tutti caricati in un grande doppio fluttuante paradossalmente più solido e rassicurante della copia originale, tutto lo sforzo intellettuale ed empirico umano di tutte le ere disponibile in tempo reale a tutte le persone dotate di connessione, sembra avere valore solo in quanto “esercizio di silenzio”. Un esercizio di concentrazione sul proprio lavoro e sulle modalità di comunicarlo senza fare ricorso alle strategie di comunicazione proprie della pubblicità. Imparare a tacere, a non commentare, a non parlare di ciò di cui non è bene parlare. Esimersi dal prendere posizione senza motivo, dai dibattiti scevri da ogni forma di approfondimento e autocritica, alimentati principalmente dall’emotività e dall’ambizione ad imporsi in una sterile battaglia a colpi di likes (l’unità di misura universalmente riconosciuta per l’apprezzamento dell’impegno), dal cinismo d’occasione indossato come una barba da hipster (o un qualunque altro tic legato alle mode), dalle commemorazioni dei morti mai conosciuti in vita, dal commento sagace del tema politico o di attualità, esimersi dall’essere contemporaneo, al passo, informato, esimersi dalla “costruzione di contenuto”.
Esimersi.  Astenersi.  Astenersi dal misurare la propria statura in un impari confronto con la sovrabbondante minorità su cui si accaniscono i professionisti del denigratorio. I nemici del suffragio universale e degli errori ortografici. Eppure anche tra di loro sono in molti a enunciare correttamente delle solenni minchiate, a incappare in bello stile in tutte le fallacie logiche e in tutte le scorciatoie cognitive catalogate sui manuali di retorica. In un panorama sovraffollato di informazioni, commenti, proliferazione di addetti alla comunicazione è necessario un lavoro di sottrazione piuttosto che di sedimentazione.
Questa sembra poter essere una interessante sfida per l’uomo nuovo con l’intero universo nel palmo della mano.
Esimersi dall’insegnare al prossimo quando l’insegnamento è non richiesto e quando la competenza per farlo non è nitida, esimersi dalla politologia, dalle conclusioni affrettate, dalla critica letteraria e/o musicale fatta al volo, dalla lingua di cartone e dalle approssimazioni, dalla medietà nei giudizi, dal compilare liste delle dieci cose che si devono assolutamente conoscere/fare o non fare, esimersi dal leggerle, dal ritenerle inutile spazzatura dal momento che anche l’elitarista, quello che ambisce a un ruolo nella minoranza influente e capace, ha un suo utile e specifico ruolo nel grande processo di rincoglionimento di massa. Anche del proprio.

Finalizzare il proprio apporto al mondo 2.0 all’assottigliamento.
Evitare di aggiungere commenti al già commentato, evitare di aumentare l’immenso,  solo apparentemente innocuo,  rumore di fondo.  Ritirarsi e parlare dal proprio spazio. Contribuire a diradare la fitta nebbia di commenti e parlare. Parlare con qualcuno. Cercare interlocutori reali, anche se apparentemente smaterializzati nella rete.

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SONO SUONI – inedito 2015

Un testo inedito del 2015 su cui stiamo lavorando con Alessio Chiappelli in vista dell’ipotetico secondo volume del nuovo progetto DESIDERANTES.

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SONO SUONI

Sono suoni. Non sono cose.
Né  umani, passi in avvicinamento.
Sono suoni usciti dal congegno
che produce suoni e consenso.
Il malore innominato che curva,
in piega esce di scia e avanza,
guadagna minuti vitali e prima
________________Sempre prima
del suo padrone e portatore
taglia il traguardo e affonda
risoluzioni e convenzioni,
convenevoli e conventicole.
C’è la musica e c’è il barile;
la paventata guerra fa star tutti a cuccia.
Buoni buoni come il cane alla catena
che è un buono sui generis,
il buono che una volta liberato
sparge merda, dolore e ingiuria.

27 novembre 2015

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Haters non Haters

Due interessanti, quantomeno degni d’esser presi in considerazione, fenomeni mediatici concomitanti di questi nostri giorni sono gli Haters e i loro detrattori. Gli Haters, se non ho capito male, sono quelli che fanno le battute ciniche quando le cantanti cascano, i famosi muoiono, i presentatori piangono, le soubrette imbruttiscono e via e via. Gli altri sono presumibilmente ammiratori di questi famosi presi per il culo che, forse per eccesso di immedesimazione, difendono i loro beniamini dalle battute degli Haters. Sono detrattori di detrattori. Un sottoprodotto umano e culturale non dotato di libero arbitrio fosse anche solo l’antipatico e guascone spirito degli Haters.
Eppure questa gente famosa vittima dell’odio e dell’invidia degli Haters vive nel Gran Teatro di Oklahoma. Son diventati famosi facendo la merda, abituando il pubblico alla merda, con la spregiudicatezza e l’opportunismo, contribuendo nel loro piccolo all’abbrutimento generale. E dunque, quando alla fine ottengono indietro la merda, farebbero meglio a non lamentarsi. Cioè, farebbero meglio a non lamentarsi i loro ammiratori, ché io non ho mai sentito un personaggio famoso lamentarsi del fatto di avere dei detrattori dal momento che è risaputo che avere dei detrattori equivale ad avere una carriera di successo.
Con questo non voglio dire che il tempo speso a ridere di una famosa cantante caduta rovinosamente a terra durante uno spettacolo sia tempo ben speso, il tempo ben speso è quello in cui si ignora la cantante, mentre canta, mentre cade, quando è in piedi, da viva e da morta. Ed è unanimemente considerato riprovevole ridere dei morti ancora caldi, ma certo non si può inibire l’equivalente delle vecchie chiacchiere al bar solo perché non sono circoscritte tra le mura del bar o perché i vecchi bar per le chiacchiere non esistono più. Non è per insistere, ma se vedi un vecchio, o anche giovane, trombone televisivo o assiduo abitante dei rotocalchi scandalistici sfigurato dal botulino e/o dalla chirurgia estetica e ridi, non è per via dell’odio o dell’invidia alla quale, ormai sopraffatti dagli eccessi dello psicologismo, viene attribuita la sicura paternità di ogni forma di dissenso e di difformità dal pensare (pensare è un parolone) dominante, delegittimando così ogni forma di alterità e la psicologia stessa. È per via del botulino e della chirurgia estetica. È per via della chirurgia e del botulino che si ride. A ragione, secondo me.

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L’Empia Mano, Baudrillard, il multiculturalismo

Non è mia l’Empia Mano.
Non è mia la Mano Empia che tracciò con l’orrendo strumento, l’evidenziatore color Giallo Tassoni che io mai usai nemmeno negli anni dello studio universitario e nemmeno sui libri di mia proprietà, al massimo una leggera sottolineatura a matita o una breve nota a margine, una riga sul libro di Baudrillard (l’illusione della fine) gentilmente prestatomi dalla biblioteca comunale di Buggiano.
A quella mano empia sento però di riconoscere, stante la condanna dell’odioso e incivile gesto, di aver sottolineato una frase che anch’io avrei sottolineato.
Perché siamo circondati da parole abusate e Multiculturalismo è una di queste. Circondati da chi ne abusa quotidianamente. Ed è un abuso che significa in realtà “inculare il prossimo”. E sono gli stessi che abusano dell’idea di pluralismo, di populismo, di demagogia. E con la storia del multiculturalismo, come con quella delle differenze, cercano di buttarlo in culo (mi permetto questa espressione colorita perché niente spiega bene come questa espressione) a chi per secoli è stato colonizzato, sfruttato, taglieggiato, depredato, con una modulazione diversa del colonialismo. Ritengo che l’idea di multiculturalismo, così come circola nei paesi occidentali, sia solo un modo per convogliare nell’immaginario comune l’idea della legittimità esclusiva di diverse sfumature umane comunque tutte riconducibili all’idea di uomo/consumatore/giocatore preteso dal tecnocapitalismo. Un modo per coinvolgere le grandi masse di predati nella legittimazione di massa del carattere predatorio del capitalismo nella sua fase finale ideologica. Che il multiculturalismo non sia una produzione postcoloniale è provato dal fatto che non è un’idea condivisa. Principalmente da chi in occidente è minoranza, e fatica farsi integrare e a sua volta non integra dove è maggioranza. E in occidente non si crede realmente al multiculturalismo. Si cerca di crederci.
A proposito di multiculturalismo condivido quanto scriveva Christopher Lasch ne “La ribellione delle élite“, cioè che 《…in assenza di standard comuni la tolleranza diventa indifferenza e il pluralismo culturale degenera in una specie di spettacolo estetico in cui possiamo anche assaporare con il gusto del conoscitore le curiose costumanza del dei nostri vicini, ma non ci prendiamo il disturbo di esprimere un qualsiasi giudizio sui nostri vicini in sé, in quanto individui.》
Certe culture sono per loro struttura (non ho detto natura, non pensate natura) in conflitto. La natura serve ora all’una, ora all’altra, per legittimarsi nelle argomentazioni nebulose, nelle richieste irricevibili. Dietro ogni “cultura” ci sono scelte morali stratificate che niente hanno a che fare con la pericolosissima natura. E le scelte morali sono spesso in conflitto tra di loro a causa delle radicali differenze nelle finalità delle scelte. Non può esistere una macrostruttura che permetta loro una sempiterna e pacifica convivenza. Né credo sussista la possibilità di uniformare, o assimilare, tutte le forme culturali a quella dominante.

Fortunatamente?

 

 

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