Robbie Fowler, l’Ifab, i portuali e il turbante

Stasera comincia la ventesima edizione dei Campionati Mondiali di Calcio Fifa. Si disputano in Brasile e questo li fa diventare dei Campionati Nobili come tutti quelli che si giocano nei paesi che hanno fatto la storia del calcio e dunque anche di parte dell’immaginario collettivo presente. Ed è innegabile che molti sperano che si ripeta il miracolo della compagine Uruguaiana del 1950. Quando il Capitano Obdulio Varela fece spegnere l’entusiasmo e l’urlo dei 200000 del Maracanà, dopo il gol del vantaggio brasiliano, trattenendo il pallone per lunghissimi interminabili minuti prima di riportarlo nel cerchio di centrocampo per la ripresa del gioco. Io lo spero.

Ed ho anche una predilezione per le notizie ormai fuori corso, obsolescenti, status che le notizie al giorno d’oggi raggiungono molto velocemente, il giorno seguente la loro uscita nel media mainstream (di regime?), appena terminato il primo giro d’isteria collettiva & social che esaurisce ogni possibile sedimentazione e possibile reazione intellettuale e/o fattiva. Andrei a rileggere ritagli di vecchi giornali per poter parlare di cose ingiustamente (ma adeguatamente) seppellite da un multistrato vischioso. Ritengo che sia l’unico modo per riflettere in senso proprio sugli eventi e sulla narrazione stessa degli eventi in cui siamo immersi e non lasciarsi andare ai sentimentalismi e agli psicologismi che partoriscono pericolose aberrazioni storiografiche.

Il fatto è questo: l‘International Board (IFAB) è l’organo che dal 1886 delibera in merito alle regole secondo le quali si può giocare al Football.

Durante la sua 128esima riunione generale annuale (AGM) tenutasi sabato 1 marzo presso la sede FIFA di Zurigo l’I.B. ha rilasciato alcune importanti modifiche al regolamento. Non tanto alle famose 17 regole fondamentali che regolano lo svolgimento dell’azione agonistica, quanto alle modalità e al contesto in cui la partita viene giocata. Questo non sembra aver turbato i tanti appassionati di calcio. Eppure si tratta di modifiche che introducono elementi contraddittori nella governance calcistica. Da una parte si consente l’uso di vestiario riconducibile apertamente alla propria fede religiosa, turbante per i sikh, velo per le donne di fede islamica (se ne parla qui), dall’altro si vieta ai giocatori di vestire sotto l’uniforme ufficiale magliette con slogan e scritte di alcun tipo. Né riconducibili alla vita privata, né alla politica o al conflitto sociale. Come se palesare la propria fede fosse legittimo, ma non il proprio sdegno per qualcosa che si ritiene ingiusto. Se si ritiene l’erba verde un manto neutro dove l’opinione personale non ha diritto di cittadinanza, così dovrebbe essere per la credenza religiosa.
Così come fece Robbie Fowler nel marzo 1997 durante una partita col Brann Bergen, sfoggiando una maglietta dove campeggiavano in grande i caratteri C e K che compongono il logotipo di una famosissima marca di abiti e accessori, ma che in realtà erano parte di una frase che cercava di sensibilizzare sulla sorte dei portuali di Liverpool che avevano perso il lavoro. “500 Liverpool dockers sacked since September 1995”.

Robbie Fowler già al tempo venne multato. Come se il calcio non vivesse circondato anche dal conflitto e dalla miseria, dalla povertà e dalle legittime rivendicazioni di chi perde il lavoro (si pensi ai Mondiali del 78 in Argentina o in Sudafrica nel 2010 e alle tanto discusse manifestazioni anti-mondiale di questi giorni nello stesso Brasile). Come se il calcio fosse un enclave dove gli abitanti rinunciano ad avere una storia, un’appartenenza culturale e sociale. Dove è impensabile che chi, per talento, fortuna o entrambe le cose congiuntamente, si lascia alle spalle un passato di difficoltà voglia mantenere ben saldo un legame con la comunità di cui è espressione ed anzi, ne rivendichi orgogliosamente l’appartenenza. Ciò che appunto fece Robbie Fowler durante il Liverpool dockers’ strike.

Tutto ciò che accade in un campo di calcio durante una partita di una federazione affiliata alla Fifa è di proprietà della Fifa stessa. Le divise, l’underwear, lo spazio fisico e quello immaginario, i corpi dei giocatori, la metafora, il gesto tecnico, la narrazione stessa che non riesce più ad ingigantire il gesto e farsi calcio ulteriore nelle ore del calcio ri-pensato. Tutto è di proprietà della Fifa e dei suoi gruppi d’influenza.

Un luogo inabitabile alla fantasia.

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E le mie non sono le parole dei restauratori e reazionari delle curve d’oggi a cui piace tanto dire “no al calcio moderno” per convogliare le legittime aspirazioni a un calcio altro verso un immaginario calcio del passato, che io sospetto mai realmente esistito.

Sono le parole di chi vorrebbe vedere un calcio di Uomini e non di figuranti, partite non accomodate, sorteggi non pilotati e mai, per nessun motivo, l’espressione di liberazione di Platinì al momento del pareggio madridista in finale di coppa dei campioni.

Ma, come disse Maradona, la Fifa è governata da dinosauri. Blatter è uno che non ha mai tirato un calcio ad un pallone e dunque credo sia la persona meno opportuna per ricoprire un ruolo istituzionale così importante.

 

 

 

Le regole del Gioco del Calcio – fonte Wikimedia Commons – immagine rilasciata con licenza Creative Commons 3.0 (condividi allo stesso modo) – la condivido allo stesso modo

 

 

 

Il Mondo è Morto | da “Scritti per la Fine del Mondo”

Il Mondo è Morto, non senti l’odore?
Si sente odore d’incenso e idrocarburi,
di eroina e trasmissioni elettorali.
Non senti il suono continuo
del calcolatore bizzarro che sancisce
la Sua Morte?
Non senti il canto degli Sterminati?
I traccianti nel cielo non sono
pirotecnie di compleanno
e nemmeno naufraghi in gommone
che segnalano disperati la posizione.
In televisione non ne danno notizia.
Guardie armate sparano
colpi d’avvertimento verso il cielo
per arrestare la marcia dei curiosi
e spesso un Tedesco vestito da Donna
parla della necessità del confronto,
ma necessariamente, nella Verità.
Il Mondo è Morto, non senti l’odore?
Non senti le trombe, gli sciacalli, gli avvoltoi
il buonumore raro del barista
che ti parla di un futuro improbabile
ti passa un bicchiere avvelenato
da un sorriso fuori tempo?
(Le profezie, la termodinamica, il buonsenso, la noia,
pronosticano in tempi diversi lo stesso evento
peraltro già avvenuto…)

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da “Scritti per la Fine del Mondo”
di Simone Molinaroli
(Ass Cult Press, 2013)

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Simone Molinaroli
Tutti i diritti riservati © 2013

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Segue una preview gratuita della versione digitale della raccolta. Su Scribd a un prezzo amichevole.

Scritti Per La Fine Del Mondo – Simone Molinaroli by Simone Molinaroli

HO IN TASCA L’ECO – una poesia da “Scritti per la Fine del Mondo”

 

 

***
Ho in tasca l’eco di parole
che un tempo appartennero agli ubriachi
che un male mai battezzato rese fiacchi
e la vanità callosa da profeta impiegato
innalzò al Silenzio Colossale dei night bar.

 

 

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da “Scritti per la Fine del Mondo”
di Simone Molinaroli
(Ass Cult Press, 2013)

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Simone Molinaroli
Tutti i diritti riservati © 2013

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Scritti Per La Fine Del Mondo – Simone Molinaroli by Simone Molinaroli

Il Declino

Lamentarsi del declino imperante sembra essere diventata l’abitudine più diffusa in questi tempi di crisi.  Declino economico,  culturale, morale, politico, sociale, artistico. Si lamentano del declino morale e culturale dell’Italia scrittori autorizzati, opinionisti preregistrati, cupe vallette di regime,  commentatori di partite di calcio, filosofi, psicologi e sociologi di scuole innumerevoli, tifosi delle curve in fissa col fantomatico calcio di una volta, donne in politica elette con le quote rosa e terribilmente somiglianti all’effigie delle sante dei santini, l’uomo della strada anche lui si lamenta, l’uomo qualunque si lamenta, si lamentano tutti, tutti hanno un’età dell’oro nascosta in qualche remota zona della propria immaginazione.

Tutta questa lamentatio fa venire il voltastomaco.


Ma quando a parlare del declino è un rappresentante della macchina dell’industria culturale, dall’interno di quella macchina che può essere legittimamente considerata tra le reali e principali responsabili di quel declino che è comodo vedere e sul quale è ancor più comodo speculare, con la pagnottona di pan bianco pagata coi soldi di chi quel declino l’ha imbastito e colorato e reso appetibile per questa grande massa di uomini e donne appena uscita dall’arcaico mondo di “prima della guerra”, quando a parlare è un qualsiasi intellettuale organico al sistema cultura dominante, il trucco diventa evidente.
Quel Declino di cui tanto si parla non è di ognuno. Quel Declino è principalmente di chi lo sottolinea e sottolineandolo si rende strumento del declino stesso, l’accurato strumento di precisione del sistema cultura che, negando sé stesso, fa ammenda e lavacro bastevoli per ulteriori e più energiche spinte sulla leva del declino, ma al contempo non fa eccezione e si fa conferma umana dell’adagio solito “tanto alla fine siamo tutti uguali…”.

L’ossessione del declino è essa stessa declino.

Sia che si tratti di paura per il non più ripercorribile divario con l’arcadia che molti custodiscono nel cuore, sia che si tratti dell’ossessione per un’idea di progresso che prevede un avvenire ipotetico ormai non più raggiungibile a causa dell’abbrutimento dell’uomo contemporaneo. 
Il vero declino personale è non essere capaci di  pensare al proprio presente senza dover sposare la rassegnazione,  il cinismo spicciolo, la spregiudicatezza, la simpatia infingarda del piazzista di bond, il sorriso dell’uomo copertina (vedi foto), la performatività, la mancanza d’entusiasmo e di volontà. Volontà principalmente di praticare forme d’esistenza diverse da quelle declinanti da cui nessuno di questi lamentanti di professione sembra volersi veramente dissociare. Secondo la ben nota strategia che prevede di mettere in discussione il fenomeno (che può essere conveniente) senza avere il coraggio di mettere in discussione la causa (che può essere sconveniente).

 

Sorriso?

 

dissenso

Intermodalità pt. 2 | facciamo due conti

in relazione con: “i miei primi due mesi…”

Ritorno sul tema dell’intermodalità, questa volta per fare un po’ di conti approssimativi dopo i primi quattro mesi di pendolarismo quotidiano in bicicletta. Conti che potrebbero deporre definitivamente a favore della transizione verso una vita libera dell’obbligo dell’automobile individuale e trovare del consenso nel potenziale lettore che potenzialmente potrebbe imbattersi in questa mia personale narrazione.
La bicicletta in questione (Dahon Vitesse D8) è costata sui 500 euro. Avrei potuto spendere meno, ma avrei anche potuto spendere di più, per esempio comprando una Brompton. Dal momento che non si compra ogni giorno un mezzo di locomozione ho scelto un oggetto di qualità. L’argomentazione classica del collega motorizzato è: e se poi te la rubano? La controargomentazione viene spontanea: e se invece a te l’auto per cui hai stipulato un contratto di finanziamento in 120 mesi te la picchiano e per due ore di manodopera il carrozziere ti chiede 3500 euro e ti senti avvilito e povero ad andare in giro con la macchina coi bozzi? È un discorso da non cominciare nemmeno…

Le possibilità che ti rubino la bicicletta pieghevole diminuiscono sensibilmente perché la bicicletta ti segue fedelmente fino a destinazione, lontano dai ladri di biciclette e nel caso mio diminuiscono ancora di più perché io la bicicletta “la bado come un cocomeraio”1. Ma questo è un altro discorso. Torniamo ai conti.

Per semplicità utilizzerò come esempio il tragitto Pistoia – Sesto Fiorentino – Pistoia, che è quello che per sette anni ho percorso io per cinque giorni alla settimana. Sono circa settanta chilometri. Si può fare in strada normale o in autostrada, ma io calcolerò il costo totale comprensivo dei pedaggi autostradali perché fare il pendolare utilizzando la provinciale significa bestemmiare tutti i giorni e odiare tutti quelli che stanno in macchina davanti a te e dietro a te e anche te stesso dentro la tua macchina.

Nella migliore delle ipotesi, o nella peggiore per chi senta molto forte il richiamo dell’auto come status symbol e si sentirebbe sminuito dal possedere e farsi vedere con una utilitaria, quella in cui si possieda un’auto di piccola cilindrata, alimentata a gas e dai consumi limitati, non si potranno spendere mai meno di 25 euro a settimana per il carburante (gpl + benzina) ed è una stima al ribasso. Aggiungendo il costo del pedaggio (1,90 x 2 = 3,80 Euro) per una media di cinque giorni lavorativi a settimana si arriva a 44 euro a settimana. E arriviamo a un totale di circa 200 euro di spese mensili solo per riuscire a raggiungere il lavoro.

A un certo punto, finita l’epoca dell’automobile condivisa, mi sono sembrati troppi.

200 euro senza calcolare l’usura macchina, l’usura gomme, l’usura e conseguente rottura dei coglioni, la svalutazione costante del mezzo, l’intollerabile rischio di finire dentro a ingorghi interminabili mentre c’avevi quell’appuntamento importante, la degustazione di vini della Linguadoca, un cineforum e via e via…

Calcolando che l’abbinamento mensile per la tratta Pistoia – Sesto Fiorentino costa 55 euro (senza agevolazioni Isee) il calcolo è presto fatto. In quattro mesi la bicicletta è stata ripagata e senza nessun bisogno di fare ulteriori conti c’è un disavanzo positivo di circa 200 euro. Che crescerà.

Certo, c’è da prendere un po’ d’acqua, anche molta. Oggi, ad esempio, chi sta finendo di scrivere questo post ne prenderà molta, ma con un buon equipaggiamento si smette di farci caso. C’è da prestare molta attenzione agli automobilisti, alle zie col Suv sovradimensionato rispetto alle capacità cognitivo/motorie e ai tempi di reazione, c’è da prestare attenzione alle buche nelle strade, ma niente in confronto alla disgrazia di dover passare del tempo, per giunta pagando, dentro un’auto senza poter fare niente se non ascoltare la playlist, il giornale radio, uno speaker idiota.

Si arriva anche alla terza parte di questo mio excursus sull’Intermodalità, quella sui libri letti sul treno e sulle panchine delle stazioni. Che sono molti di più di quelli che uno riuscirebbe a immaginare. Una terza parte in estensione di cui si può raccontare solo una parte ed immaginare la seguente. Ci ritornerò.

Dahon Vitesse Folding Bike
La nuova Dahon Vitesse alla luce del Sole.
passato e presente | kobo ebook reader
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1. “Badare come un Cocomeraio” è una classica espressione pistoiese che sottolinea l’attenzione prestata a oggetti o persone, paragonandola a quella, proverbiale, che il cocomeraio presta ai propri cocomeri nel suo chiosco estivo.