Le argomentazioni pericolose (o anche l’Uomo Medio)

Le argomentazioni pericolose vengono trasportate, o meglio vengono veicolate, dal cervello vuoto dell’uomo medio. Uomo medio da non confondere con l’uomo ignorante, ché molti uomini quantitativamente ignoranti brillano di arguzia ed intelligenze nitide, coraggiose e originali forse anche a causa del proprio ignorare, causa certamente non necessaria, ma talvolta più che sufficiente. Il suo cervello, quello dell’uomo medio, è il vettore dell’abominio verbale propagandato dai mezzi di comunicazione. Non avendo niente di proprio, di ragionato (e di migliore) da esibire al bar, l’uomo medio appoggia il suo giornale sul bancone e poi grida, o meglio risuona, argomentazioni criminali già risuonate la sera prima nella testa di qualche opinion maker di merda. Opinion Maker di merda è un po’ troppo vago e generico ed è necessaria una precisazione. L’opinion maker di merda non è proprio un facitore di pensieri, quanto un cesellatore di suggerimenti indirizzati a un segmento di utenza  già individuato. È uno che spara sul bersaglio fermo. Il cecchino che spara sull’infermo. Non brilla mai per coraggio e originalità, ma solo per il ricorso continuo al tema emotivo, per attaccare l’asino dove vuole il padrone, per essere fondamentalmente un guitto da circo.
Ma dicevamo dell’uomo medio che porta in giro questi suggerimenti, che trovano nel grande prato incolto della sua immaginazione un terreno fertile per crescere e proliferare incontrastati figliando derivazioni altrettanto sciocche degli originari suggerimenti, l’uomo medio che al bancone del bar,  col suo giornale aperto sulle tazzine dei vicini grida,  coopta, generalizza, chiede continuamente a un interlocutore non ben individuato «dico bene?», si indigna un poco, ma un poco anche strizza l’occhio all’opportunismo cialtrone e autoindulgente e indulge con le proprie debolezze che, non essendo così diverse da quelle degli altri, sono integralmente ricevibili come facenti parte del normale corredo umano. Si incoraggia, come cantava Ivan Graziani nel 1979, a dare sfogo a suoi difetti, pretende d’essere apprezzato nella sua totalità fallata propriamente espressione della medietà rispettabile. Compostamente rancorosa, umilmente orgogliosa dell’esser priva di ambizioni divergenti da quanto ritenuto mediamente ambito, moderatamente razzista se non quando per ischerzo, nel momento della caciara collettiva con altri a lui simili, dichiara entusiasticamente la propria incondizionata adesione a ogni forma di pogrom ipotetico contro vittime ipotetiche ogni volta diverse. Ma anche moderatamente multiculturalista, quanto richiesto per non essere espulso dal consesso umano tecnoprogressista devoto al politically correct e alla diversità non sostanziale. La sua frase preferita è “io una soluzione c’è l’avrei“. C’è l’avrebbe sempre. Ha soluzioni per ogni tipo di problematica e intoppo. Solitamente soluzioni drastiche. Non ragionate. Non negoziabili. Atte solo a smuovere traumaticamente confidando nel riassesto naturale. L’uomo medio è fondamentalmente un criminale (Pasolini). Ma il suo reale tratto distintivo è il ricalibrare. L’uomo medio è un uomo che ricalibra. Alla bisogna cambia sfumatura al suo pensiero e di sfumatura in sfumatura si arriva alla riva opposta guidati da una corrente che si suppone inarrestabile. Ricalibra i propri gusti, le proprie aspettative, i propri convincimenti al fine di non sentirli anomali e non sentirsi perdutamente solo in quella corrente inarrestabile di medietà contro cui ritiene sia del tutto inutile e controproducente nuotare. Si ricalibra per non sentirsi escluso nelle discussioni medie dove è importante assentire collettivamente, sentirsi parte, aderire, sempre senza perdere contatto con la voga media, le fissazioni collettive, l’altoparlante dei media e i link dei social networks.

E così, come gli stronzi dotati di scarso peso specifico riaffiorano nel mare, le argomentazioni pericolose e i loro portantini riemergono nella bollente alba estiva, all’improvviso, alla fine di un turno di notte. Alle ore 6.25 dentro un bar vedo una ex collega seduta su uno sgabello che consuma la sua brioche. Fummo applicati nel 2009 nella stessa unità per sei mesi. Tempo sufficiente per avere un paio di accesi scambi d’opinione. Uno per questioni di lavoro di cui non posso parlare perché dovrei violare la clausola di riservatezza che con continuità maniacale la direzione ricorda nelle sue circolari e l’altro in merito al caso Aldrovandi (anche qui). Ricordo che in combutta con un’altra collega si permisero una serie di considerazioni intollerabili, intollerabili principalmente  perché tradivano una disumana e sbrigativa mancanza di rispetto nei confronti di un ragazzo di diciassette anni morto in mezzo a una strada in circostanze quantomeno anomale. Considerazioni quali «non doveva essere un ragazzo normale» e il classico  «se l’è andata a cercare». Contravvenendo alla regola personale di non inoltrarmi in polemiche con colleghi/e più anziani/e decisi di trattarle malissimo e a entrambe augurai pronta morte.

Non mi sono mai pentito.

Né di avergli augurato la morte, né di aver desiderato veramente che morissero.

Mi giro e torno indietro all’entrata del bar per chiudere la serratura automatica dell’auto. Quando mi volto nuovamente noto che la mia ex collega si è infilata dentro  un angolo della sala. Quasi attaccata al punto d’incontro dei due muri. Biascica la sua brioche guardando il muro da distanza ravvicinata ed io ho pensato «a volte discutere non è inutile».

agosto 2016 | Sottoclou XXI Secolo

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La Fabbrica a Fine Turno – una poesia inedita (2016)

LA FABBRICA A FINE TURNO

La fabbrica a fine turno è una piscina vuota
piena di acqua gialla e pesci muti.
L’accozzo di rumori s’accommiata
il tempo che basta alla toilette ed ai saluti.
Brillano luci al neon e le voci senza corpo
di chi abita l’universo adiacente.
Rimozioni, dimenticanze, distrazioni
che hanno patria innominata.
Matasse inestricate che il tempo infittisce
e nessuna mano ha il cuore di toccare.
La fabbrica ingoia mille uomini
e di mille uomini eppure nulla capisce.
Di mille uomini eppure nulla resta,
non il nome,  non la storia,
nel parcheggio è piombato l’inverno
nebbia con odore di cipolla marcita
natale incombe, gratifica preimpegnata,
la diresti una fortuna e invece
è triste china, conto di spìccioli e becchíme,
tecnologici in offerta, scommesse,
nuove rate da pagare.
La Resa senza discussione
agli esperti della narrazione.

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© Simone Molinaroli 2016
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Ich bin ein Provinzler
Ich bin ein Provinzler

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


 

IL PENSIERO DÀ FASTIDIO | 2004 | una poesia da “Il Crollo degli Addendi”

Di questa poesia ricordo esattamente il processo compositivo.
È stata scritta nella primavera del 2004. Due amici che lavoravano insieme a un progetto musicale molto apprezzato, e che già avevano usato un mio testo in un precedente lavoro, mi chiesero di scrivere un testo per un nuovo album a cui stavano lavorando. La scrissi per loro. Però poi non se ne fece nulla. Quel disco non fu mai realizzato e il progetto stesso fu abbandonato. Ed io rimasi con una delle migliori poesie che avessi mai scritto, cioè una di quelle che in relazione al movente e alle aspettative iniziali più hanno finito per approssimarsi al risultato sperato, scritta paradossalmente per altri. Ho pensato spesso che proprio il senso di responsabilità e la legittima voglia di ben figurare, collaborando con persone di cui si tiene in considerazione il lavoro, abbiano funzionato da incentivo.
La pensai e la scrissi quasi tutta guidando quel famoso furgone che guidavo a ore improbabili nella primavera del 2004. Battendo un ritmo in quattro quarti sul volante e prendendo il la dal verso “Il pensiero dà fastidio anche se chi pensa è muto come un pesce” di una canzone (com’è profondo il mare) di Lucio Dalla.
Negli anni è stata più volte utilizzata durante i miei readings diventando praticamente il mio personale hit e ne sono state registrate alcune versioni tra cui questa che segue con i Sus. Curiosità: c’è anche chi mi ha raccontato di averla letta in classe per ammansire una scolaresca ottenendo peraltro il risultato sperato.

 


IL PENSIERO DÀ FASTIDIO

Il pensiero dà fastidio
anche se chi pensa sta pensando a se stesso
e non parla o se parla è poco
un verso di poesia animale, gemello
della computazione elementare retrostante
un brano di una autistica preghiera
e il sacrificio umano
per il dio incontentabile degli orfani.
Il pensiero dà fastidio
anche se chi pensa sta pensando l’amore
come l’eterna pulsazione
che rende giovani e immortali
il prodigio senza trucchi
che restituisce un corpo ai morti
per camminare nella memoria
dei giorni fecondi.
Il pensiero dà fastidio
anche se chi pensa sta pensando
cosa posso dire a questi occhi
per vedere il loro vero colore
la furiosa bellezza
l’onda feroce di desiderio
che vidi nello sguardo che generò il mio viaggio.
Il pensiero dà fastidio
anche se abbiamo tutti amato
qualcosa che non esiste
e maledetto la speranza
e l’attesa incalcolabile dell’avvento
di un regno, di una parziale salvezza.
Abbiamo tutti amato
qualcosa che non esiste.
Per questo, sopravvissuti.

 

da Il Crollo degli Addendi (2006, Ass Cult Press/Dizlexiqa)


 

Ich bin ein Provinzler
Ich bin ein Provinzler

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


Simone Molinaroli - Il Crollo degli Addendi
Simone Molinaroli | Il Crollo degli Addendi | 2006, Ass Cult Press/Dizlexiqa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Vendete gli Abiti – una poesia da “Il Crollo degli Addendi”

VENDETE GLI ABITI

Vendete gli abiti con cui hanno vestito
la vostra vita e il vostro sonno.
Vendeteli agli specialisti del riciclaggio
e come promozione includete nel prezzo
i biscotti che vi hanno avvelenato
e la sorpresa che vi colse
quel pomeriggio che vostro padre
confessò apertamente di non essere
niente di più che l’uomo che vi generò
e confessando pianse e alla fine
aggiunse che era giusto che sapeste
che vi avrebbero strappato tutto
in cambio di quei vestiti che un giorno
avreste fatto bene a vendere prima che
vi regalassero anche i mobili e gli optional
e che vi strappassero veramente tutto.

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Il Crollo degli Addendi
Simone Molinaroli
Ass Cult Press/Dizlexiqa
2006
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L’Online (prospettive per l’Uomo con l’universo nel palmo della mano)

L’Online, dove per online intendo tutto ciò che sta simultaneamente in rete, l’intelligenza collettiva, le piattaforme per incontri, i social networks, infiniti database musicali e archivi video, tutti i cazzi privati di tutti caricati in un grande doppio fluttuante paradossalmente più solido e rassicurante della copia originale, tutto lo sforzo intellettuale ed empirico umano di tutte le ere disponibile in tempo reale a tutte le persone dotate di connessione, sembra avere valore solo in quanto “esercizio di silenzio”. Un esercizio di concentrazione sul proprio lavoro e sulle modalità di comunicarlo senza fare ricorso alle strategie di comunicazione proprie della pubblicità. Imparare a tacere, a non commentare, a non parlare di ciò di cui non è bene parlare. Esimersi dal prendere posizione senza motivo, dai dibattiti scevri da ogni forma di approfondimento e autocritica, alimentati principalmente dall’emotività e dall’ambizione ad imporsi in una sterile battaglia a colpi di likes (l’unità di misura universalmente riconosciuta per l’apprezzamento dell’impegno), dal cinismo d’occasione indossato come una barba da hipster (o un qualunque altro tic legato alle mode), dalle commemorazioni dei morti mai conosciuti in vita, dal commento sagace del tema politico o di attualità, esimersi dall’essere contemporaneo, al passo, informato, esimersi dalla “costruzione di contenuto”.
Esimersi.  Astenersi.  Astenersi dal misurare la propria statura in un impari confronto con la sovrabbondante minorità su cui si accaniscono i professionisti del denigratorio. I nemici del suffragio universale e degli errori ortografici. Eppure anche tra di loro sono in molti a enunciare correttamente delle solenni minchiate, a incappare in bello stile in tutte le fallacie logiche e in tutte le scorciatoie cognitive catalogate sui manuali di retorica. In un panorama sovraffollato di informazioni, commenti, proliferazione di addetti alla comunicazione è necessario un lavoro di sottrazione piuttosto che di sedimentazione.
Questa sembra poter essere una interessante sfida per l’uomo nuovo con l’intero universo nel palmo della mano.
Esimersi dall’insegnare al prossimo quando l’insegnamento è non richiesto e quando la competenza per farlo non è nitida, esimersi dalla politologia, dalle conclusioni affrettate, dalla critica letteraria e/o musicale fatta al volo, dalla lingua di cartone e dalle approssimazioni, dalla medietà nei giudizi, dal compilare liste delle dieci cose che si devono assolutamente conoscere/fare o non fare, esimersi dal leggerle, dal ritenerle inutile spazzatura dal momento che anche l’elitarista, quello che ambisce a un ruolo nella minoranza influente e capace, ha un suo utile e specifico ruolo nel grande processo di rincoglionimento di massa. Anche del proprio.

Finalizzare il proprio apporto al mondo 2.0 all’assottigliamento.
Evitare di aggiungere commenti al già commentato, evitare di aumentare l’immenso,  solo apparentemente innocuo,  rumore di fondo.  Ritirarsi e parlare dal proprio spazio. Contribuire a diradare la fitta nebbia di commenti e parlare. Parlare con qualcuno. Cercare interlocutori reali, anche se apparentemente smaterializzati nella rete.

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