Brevemente sull’argomento “morte della poesia”. Brevemente e fuori tempo. Orgogliosamente non sul pezzo. Brevemente perché già innumerevoli autorevoli professionisti del settore si sono dilungati, chi sostenendo d’aver visto il corpo morto della poesia, la sua salma rigida e ghiaccia, neanche ben ricomposta, anzi, ulteriormente disturbata dagli innumerevoli e velleitari tentativi di votarsi alla sua causa. C’è stato chi addirittura ha sostenuto di averla vista spirare in diretta coi propri occhi e chi invece non ha lesinato sforzi per dimostrare che essa è invece viva, vegeta e gode di salute altalenante, ma viva.
Vedo più morta la prosa. Prodotta in serie nelle scuole di narrazione e scrittura creativa. I prosatori con i loro plot arresi all’ordinario, alla medietà di un lettore medio immaginario senza cognizione. Ma nemmeno i prosatori di batteria sono morti. Stanno come stanno. Stanno nella gabbietta, stanno del resto come i colleghi poeti tutti impegnati a sembrare tutti lo stesso poeta, svoltano le giornate e mettono insieme un pranzo e una cena con i loro libretti smorti. Ma questo non preclude l’apparizione improvvisa di uno scrittore di nerbo. Prosatore o poeta che sia. Animato da una irrefrenabile e incontestabile animosità. Non è morto nessuno di coloro che danno segnali di vita. Anche se sembra vita alla fine. O alla frutta come si dice in gergo.
Dire che la poesia è morta è dire una banalissima falsità. Si può essere vivi e zoppicare, andare malvestiti, agonizzanti e scombinati, tristissimi o felici di levata, quasi morti, ma al contempo essere vivi. La poesia allo stesso modo è praticata in modo banale, interessato, professorale, pedissequo, noioso, eccezionale, discutibile, luminosamente ispirato, e tutto questo non è proprio della morte. La poesia se ne va in giro in tutti i modi possibili immaginabili tranne che da morta. Credo che chi dice che la poesia è morta pecchi d’infantilismo intellettuale. È morto, cioè, tutto ciò che non è vivo come dico io. Infantilismo spesso interessato. Per cui si finisce ad apprezzare solo ciò che conferma la propria visione delle cose, ovvero un sistemino di pensiero che ci garantisce una minestra, un privilegio e una posa da conoscitore.
Una posa per l’appunto.
Due coglioni come due case.
E poi, come diceva Margo Channing (Bette Davis) in All About Eve allo sceneggiatore che faceva l’offeso, tutti gli autori dovrebbero essere morti da almeno trecento anni.
Ci vuole pazienza per giudicare.