Accolgo l’arrivo dello Streptococco tra le mura domestiche, e di conseguenza nell’organismo, portato dalla prole come involontario cavallo di Troia con questo estemporaneo componimento poetico dal titolo “Minchiatella Poetica dello Streptococco”. È lo stesso Streptococco con cui nel 1996 ingaggiai una lotta furibonda e che ricordo, sinceramente, con terrore.
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MINCHIATELLA POETICA DELLO STREPTOCOCCO
Il Natale al sottoscritto si scordó di recar doni,
non maglioni e calzerotti, non biscotti non torroni.
E siccome non fui reo non furono carboni,
furono soltanto sciroppi e pasticconi.
Erano altre elezioni. Credo quelle del 2006. Anzi: erano proprio quelle dall’aprile 2006. Altre le elezioni. Medesima l’infelicità. Nel confrontarsi con l’impotenza operativa e la distanza incolmabile tra il cittadino e ciò che in teoria dovrebbe essere l’esito politico della sua volontà di partecipare e del suo partecipare. A Milano dove mi trovavo in visita a un amico c’era la neve e sui tetti dei palazzi, nei manifesti sei per sei, giganteggiavano le gigantografie dei due candidati premier per le incombenti elezioni politiche di aprile. Ricordo nitidamente che cominciai a pensare a questa poesia aspettando il verde a un passaggio pedonale in viale Jenner alle ore 7 del mattino. Era freddo.
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IN TEMPI DI ELEZIONI
I. introduzione
In tempi di elezioni siamo tutti più infelici
Ricominciano a pensare anche quelli che hanno smesso,
anche quelli che il pensiero molto spesso lo hanno offeso
celati dietro il Quotidiano dentro il bar vicino a casa,
nelle scuole e nelle strade e ovunque sparsi
ricominciano anche quelli che non hanno mai pensato
che pensare fosse un bene, una possibilità.
La visione avuta in dono a pezzettini
senza le istruzioni e senza volontà.
In tempi di elezioni
sui tetti dei palazzi a venti metri da terra
tutti i timori trovano un volto
tutte le cazzate trovano un orecchio.
In tempi di Elezioni si fa scherzo la ragione
Disperata burla per essere all’altezza
del Suffragio Universale
fatto coi clic e la lingua di cartone.
IL BICCHIERE NELLA PIOGGIA
Il bicchiere nella pioggia
racconta la destinazione, l’urto,
l’esilio di un Ospite Involontario.
L’appello sgradito che il corpo non teme
e la voce non diserta.
Dover andare.
La compiutezza di ogni intento,
l’approdo finale e il disarmo,
lo scioglimento dell’equipaggio e senza tante storie
il termine di ogni doloroso equivoco.
La fabbrica a fine turno è una piscina vuota
piena di acqua gialla e pesci muti.
L’accozzo di rumori s’accommiata
il tempo che basta alla toilette ed ai saluti.
Brillano luci al neon e le voci senza corpo
di chi abita l’universo adiacente.
Rimozioni, dimenticanze, distrazioni
che hanno patria innominata.
Matasse inestricate che il tempo infittisce
e nessuna mano ha il cuore di toccare.
La fabbrica ingoia mille uomini
e di mille uomini eppure nulla capisce.
Di mille uomini eppure nulla resta,
non il nome, non la storia,
nel parcheggio è piombato l’inverno
nebbia con odore di cipolla marcita
natale incombe, gratifica preimpegnata,
la diresti una fortuna e invece
è triste china, conto di spìccioli e becchíme,
tecnologici in offerta, scommesse,
nuove rate da pagare.
La Resa senza discussione
agli esperti della narrazione.
Di questa poesia ricordo esattamente il processo compositivo.
È stata scritta nella primavera del 2004. Due amici che lavoravano insieme a un progetto musicale molto apprezzato, e che già avevano usato un mio testo in un precedente lavoro, mi chiesero di scrivere un testo per un nuovo album a cui stavano lavorando. La scrissi per loro. Però poi non se ne fece nulla. Quel disco non fu mai realizzato e il progetto stesso fu abbandonato. Ed io rimasi con una delle migliori poesie che avessi mai scritto, cioè una di quelle che in relazione al movente e alle aspettative iniziali più hanno finito per approssimarsi al risultato sperato, scritta paradossalmente per altri. Ho pensato spesso che proprio il senso di responsabilità e la legittima voglia di ben figurare, collaborando con persone di cui si tiene in considerazione il lavoro, abbiano funzionato da incentivo.
La pensai e la scrissi quasi tutta guidando quel famoso furgone che guidavo a ore improbabili nella primavera del 2004. Battendo un ritmo in quattro quarti sul volante e prendendo il la dal verso “Il pensiero dà fastidio anche se chi pensa è muto come un pesce” di una canzone (com’è profondo il mare) di Lucio Dalla.
Negli anni è stata più volte utilizzata durante i miei readings diventando praticamente il mio personale hit e ne sono state registrate alcune versioni tra cui questa che segue con i Sus. Curiosità: c’è anche chi mi ha raccontato di averla letta in classe per ammansire una scolaresca ottenendo peraltro il risultato sperato.
IL PENSIERO DÀ FASTIDIO
Il pensiero dà fastidio
anche se chi pensa sta pensando a se stesso
e non parla o se parla è poco
un verso di poesia animale, gemello
della computazione elementare retrostante
un brano di una autistica preghiera
e il sacrificio umano
per il dio incontentabile degli orfani.
Il pensiero dà fastidio
anche se chi pensa sta pensando l’amore
come l’eterna pulsazione
che rende giovani e immortali
il prodigio senza trucchi
che restituisce un corpo ai morti
per camminare nella memoria
dei giorni fecondi.
Il pensiero dà fastidio
anche se chi pensa sta pensando
cosa posso dire a questi occhi
per vedere il loro vero colore
la furiosa bellezza
l’onda feroce di desiderio
che vidi nello sguardo che generò il mio viaggio.
Il pensiero dà fastidio
anche se abbiamo tutti amato
qualcosa che non esiste
e maledetto la speranza
e l’attesa incalcolabile dell’avvento
di un regno, di una parziale salvezza.
Abbiamo tutti amato
qualcosa che non esiste.
Per questo, sopravvissuti.
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