Vendete gli abiti con cui hanno vestito
la vostra vita e il vostro sonno.
Vendeteli agli specialisti del riciclaggio
e come promozione includete nel prezzo
i biscotti che vi hanno avvelenato
e la sorpresa che vi colse
quel pomeriggio che vostro padre
confessò apertamente di non essere
niente di più che l’uomo che vi generò
e confessando pianse e alla fine
aggiunse che era giusto che sapeste
che vi avrebbero strappato tutto
in cambio di quei vestiti che un giorno
avreste fatto bene a vendere prima che
vi regalassero anche i mobili e gli optional
e che vi strappassero veramente tutto.
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Il Crollo degli Addendi
Simone Molinaroli
Ass Cult Press/Dizlexiqa
2006
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L’Online, dove per online intendo tutto ciò che sta simultaneamente in rete, l’intelligenza collettiva, le piattaforme per incontri, i social networks, infiniti database musicali e archivi video, tutti i cazzi privati di tutti caricati in un grande doppio fluttuante paradossalmente più solido e rassicurante della copia originale, tutto lo sforzo intellettuale ed empirico umano di tutte le ere disponibile in tempo reale a tutte le persone dotate di connessione, sembra avere valore solo in quanto “esercizio di silenzio”. Un esercizio di concentrazione sul proprio lavoro e sulle modalità di comunicarlo senza fare ricorso alle strategie di comunicazione proprie della pubblicità. Imparare a tacere, a non commentare, a non parlare di ciò di cui non è bene parlare. Esimersi dal prendere posizione senza motivo, dai dibattiti scevri da ogni forma di approfondimento e autocritica, alimentati principalmente dall’emotività e dall’ambizione ad imporsi in una sterile battaglia a colpi di likes (l’unità di misura universalmente riconosciuta per l’apprezzamento dell’impegno), dal cinismo d’occasione indossato come una barba da hipster (o un qualunque altro tic legato alle mode), dalle commemorazioni dei morti mai conosciuti in vita, dal commento sagace del tema politico o di attualità, esimersi dall’essere contemporaneo, al passo, informato, esimersi dalla “costruzione di contenuto”.
Esimersi. Astenersi. Astenersi dal misurare la propria statura in un impari confronto con la sovrabbondante minorità su cui si accaniscono i professionisti del denigratorio. I nemici del suffragio universale e degli errori ortografici. Eppure anche tra di loro sono in molti a enunciare correttamente delle solenni minchiate, a incappare in bello stile in tutte le fallacie logiche e in tutte le scorciatoie cognitive catalogate sui manuali di retorica. In un panorama sovraffollato di informazioni, commenti, proliferazione di addetti alla comunicazione è necessario un lavoro di sottrazione piuttosto che di sedimentazione.
Questa sembra poter essere una interessante sfida per l’uomo nuovo con l’intero universo nel palmo della mano.
Esimersi dall’insegnare al prossimo quando l’insegnamento è non richiesto e quando la competenza per farlo non è nitida, esimersi dalla politologia, dalle conclusioni affrettate, dalla critica letteraria e/o musicale fatta al volo, dalla lingua di cartone e dalle approssimazioni, dalla medietà nei giudizi, dal compilare liste delle dieci cose che si devono assolutamente conoscere/fare o non fare, esimersi dal leggerle, dal ritenerle inutile spazzatura dal momento che anche l’elitarista, quello che ambisce a un ruolo nella minoranza influente e capace, ha un suo utile e specifico ruolo nel grande processo di rincoglionimento di massa. Anche del proprio.
Finalizzare il proprio apporto al mondo 2.0 all’assottigliamento.
Evitare di aggiungere commenti al già commentato, evitare di aumentare l’immenso, solo apparentemente innocuo, rumore di fondo. Ritirarsi e parlare dal proprio spazio. Contribuire a diradare la fitta nebbia di commenti e parlare. Parlare con qualcuno. Cercare interlocutori reali, anche se apparentemente smaterializzati nella rete.
Un testo inedito del 2015 su cui stiamo lavorando con Alessio Chiappelli in vista dell’ipotetico secondo volume del nuovo progetto DESIDERANTES.
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SONO SUONI
Sono suoni. Non sono cose.
Né umani, passi in avvicinamento.
Sono suoni usciti dal congegno
che produce suoni e consenso.
Il malore innominato che curva,
in piega esce di scia e avanza,
guadagna minuti vitali e prima ________________Sempreprima
del suo padrone e portatore
taglia il traguardo e affonda
risoluzioni e convenzioni,
convenevoli e conventicole.
C’è la musica e c’è il barile;
la paventata guerra fa star tutti a cuccia.
Buoni buoni come il cane alla catena
che è un buono sui generis,
il buono che una volta liberato
sparge merda, dolore e ingiuria.
Andiamo Via! Il luogo è affollato
e non è il numero a preoccuparmi, ma il Suono.
Il belato zelante e servile imbracciato come un’arma
da una moltitudine incerta e amante dell’assenso,
che alla bisogna include
e per capriccio
stermina, condanna, ________________sanziona.
Scrissi questa poesia nel gennaio 1995. La guerra nei Balcani, che per me fu uno spartiacque emotivo radicale, era sul finire. Pur avendo vividi ricordi della lunga e sanguinosa stagione del terrorismo italico, ci furono elementi inediti nella guerra nei territori della ex Jugoslavia. Tanto da generare uno sgomento e una preoccupazione profonda. Elementi inediti di copertura mediatica, e uno sfruttamento massiccio e strumentale degli eventi sanguinosi che avvenivano oltre l’Adriatico, porsero all’attenzione della disattenta opinione pubblica degli europei d’Occidente una ferocia che a torto si pensava scomparsa col progresso, tanto da far sembrare anch’essa inedita.
Voglio chiarire che non è che sia importante cosa sia stata per me la guerra dei Balcani, ma se così non fosse stato non avrei mai scritto questa poesia.
Non mi ricordo in concomitanza di quale delle stragi provocate dai colpi di mortaio (o dalle mine antiuomo a seconda delle versioni) in mezzo alla gente in fila per i viveri, m’imbattei a notte tarda in una trasmissione televisiva, di ritorno da una tranquilla serata da studente universitario, in un filmato non bonificato ad uso dei telegiornali, in cui si potevano vedere le fasi immediatamente successive all’esplosione.
Dovetti chiamare nel mezzo della notte (era Fuori Orario la trasmissione) l’unica persona che sapevo mi avrebbe compreso e che probabilmente aveva visto la stessa cosa. Dovetti chiamare per essere sicuro di aver visto bene. Perché, nonostante l’infanzia durante la lunga e mai ben ponderata stagione delle stragi italiane, mai mi era capitato di pensare possibile un colpo di mortaio in mezzo ai civili in fila per il pane. Mai avrei pensato di vedere il corpo di un uomo senza mezza testa caricato su una Golf, di cui si potevano vedere, credo, la faringe e le vertebre cervicali.
Per molto tempo molte cose mi sembrarono insensate.
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UNA GUERRA VISTA DA LONTANO
Domattina il movimento sarà veloce.
Nessun problema tranne
un macilento senso di rovina
che prende lo stomaco.
Nessun turbamento nelle geometrie forsennate
dei capitani di vascello.
E se nevicherà mireremo gli amici
sdraiati per terra, calpestati dal mondo
nel riso e nel fumo nessun rischio calcolato
nessun coinvolgimento al bordo dell’esistenza
se non concederci la vista di macelli ordinari
al limite della banalità.
La rovina è la realtà
la menzogna di moderni Cortez
alla conquista delle Americhe
allo sterminio silenzioso dei vinti.
Una guerra vista da lontano
è come un tramonto visto dal vivo;
voltandosi scompare.
Ne rimane il puzzo,
ne rimane il rimbombo cupo
che diventa i fuochi di una festa,
la notte, oltre una collina.
Al puzzo, come in un cesso,
si fa l’abitudine.
Simone Molinaroli | www.simonemolinaroli.org l molinaroli[at]asscultpress.com
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