I treni di giugno…

I treni sono pieni di genti imprigionate dentro una tristezza che ingiustamente ha una ricaduta sulla qualità della vita altrui. Rettifico: sui treni pieni ci sono anche genti imprigionate nella propria tristezza a cui danno fastidio le biciclette pieghevoli e il chiacchiericcio delle ragazzine che cimbràccolano che, appena terminato un turno di lavoro, fanno quasi, sottolineo quasi, allegria. E poi si alzano sdegnate, si lasciano andare a voce alta a considerazioni sull’impossibilità di stare in mezzo a certa gente, farfugliando il proprio sdegno nella speranza che qualcuno lo tenga in considerazione e si allei in un ammutinamento d’élite che evacui dal convoglio i giovani studenti, i lavoratori, i bighelloni, le genti malvestite, il sudore e la fatica.

(la signora è sui cinquanta anni, piacente, vestita in modo elegante, dà segni di uso di psicofarmaci, è indubitabilmente esaurita, non riesce a controllare la sua mimica facciale, appena mi siedo, non accanto a lei, non davanti a lei invadendo lo spazio che gli studi di prossemica applicati al trasporto ferroviario le riservano, bensì nel posto libero davanti al posto libero accanto a lei, lato corridoio per controllare che la bicicletta non ostruisca il passaggio o rechi danno ad alcuno, la signora comincia a dare segni di nervosismo, guarda accigliata la mia bici pieghevole, osserva incredula la mia tenuta estiva da lavoro e il copioso sudore risultante di sette ore e ventisette minuti di stabilimento e di una pedalata rapida necessaria a prendere il treno in tempo, esprime disgusto, non favella se non un leggero borbottio, se volesse essere mandata affanculo e velocizzare la questione non avrebbe che da chiedere, nei sedili appena dietro di lei siedono quattro ragazzine che uscite da scuola fanno un po’ di chiasso, altri studenti parlano dei loro esami, suona qualche telefono, un paio di giovanissimi spìppolano annoiati coi cellulari,  le ragazze aumentano il volume del loro giovanile ed entusiasta ridere e questo, probabilmente, per la signora diventa troppo, uscita di casa convinta di viaggiare in prima classe sull’Orient Express nel 1913 con Agatha Christie e l’ispettore Poirot si è invece trovata nel Treno Regionale 3062 in servizio sulla tratta Firenze – Viareggio. Poveretta…)

Ma come potrà essere ottenuta la considerazione dal momento che solitamente sul treno si è circondati solo da certa gente? Che il treno serve in gran parte certa gente, mescolata, non selezionata, vociante e stropicciata, che va e/o torna dal lavoro, dalla scuola, tutti sudati, qualcuno allegramente, qualcuno meno, tutti in attesa di arrivare o tornare nei luoghi del proprio stare nel mondo. Ed essi, gli infastiditi, troveranno nel loro fuggire solo altri vagoni con altro chiacchiericcio, altre persone sudate, altre biciclette e inoltre avranno preso pure di bischero.

Così come successo alla signora di questo episodio. Che nell’andarsene farfugliando contro  tutto e tutti viene seguita da una scia di simpatiche prese di culo.

Ma non è sola la signora dell’episodio. Ne leggo/sento a decine sui social network e alla sera al caffè biasimare gli occupanti dei treni. Sono gli stessi che abolirebbero il diritto di voto, che odiano il traffico mentre guidano l’auto e sono il traffico e che dunque abolirebbero il diritto alla guida, che viaggiano e odiano arrivare nei luoghi dove già ci sono gli altri (Jovanotti ne ha dato un esempio raccontando nel suo ultimo libro della delusione provata nel giungere in Terra del Fuoco e trovare altri turisti. Bastava che rimanesse a casa ed evitava agli altri la delusione di vedere lui…) e dunque abolirebbero il diritto di viaggiare, che prendono il treno ma pretendono un vagone riservato. Quelli che vorrebbero distinguersi dall’uomo comune, i praticanti dell’edonismo di massa, frequentatori di luoghi esclusivi pieni stracolmi di altri edonisti convinti di distinguersi dagli uomini comuni.
Immagino alla fine delle loro giornate votate alla distinzione una delusione e una disperazione senza rimedio. Proprio come quella che ha provato Jovanotti a Ushuaia.

fonte dell’immagine: Wikimedia Commons

autore: Cuttergraphics

licenza: Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported

condivido e rilascio allo stesso modo

Il Declino

Lamentarsi del declino imperante sembra essere diventata l’abitudine più diffusa in questi tempi di crisi.  Declino economico,  culturale, morale, politico, sociale, artistico. Si lamentano del declino morale e culturale dell’Italia scrittori autorizzati, opinionisti preregistrati, cupe vallette di regime,  commentatori di partite di calcio, filosofi, psicologi e sociologi di scuole innumerevoli, tifosi delle curve in fissa col fantomatico calcio di una volta, donne in politica elette con le quote rosa e terribilmente somiglianti all’effigie delle sante dei santini, l’uomo della strada anche lui si lamenta, l’uomo qualunque si lamenta, si lamentano tutti, tutti hanno un’età dell’oro nascosta in qualche remota zona della propria immaginazione.

Tutta questa lamentatio fa venire il voltastomaco.


Ma quando a parlare del declino è un rappresentante della macchina dell’industria culturale, dall’interno di quella macchina che può essere legittimamente considerata tra le reali e principali responsabili di quel declino che è comodo vedere e sul quale è ancor più comodo speculare, con la pagnottona di pan bianco pagata coi soldi di chi quel declino l’ha imbastito e colorato e reso appetibile per questa grande massa di uomini e donne appena uscita dall’arcaico mondo di “prima della guerra”, quando a parlare è un qualsiasi intellettuale organico al sistema cultura dominante, il trucco diventa evidente.
Quel Declino di cui tanto si parla non è di ognuno. Quel Declino è principalmente di chi lo sottolinea e sottolineandolo si rende strumento del declino stesso, l’accurato strumento di precisione del sistema cultura che, negando sé stesso, fa ammenda e lavacro bastevoli per ulteriori e più energiche spinte sulla leva del declino, ma al contempo non fa eccezione e si fa conferma umana dell’adagio solito “tanto alla fine siamo tutti uguali…”.

L’ossessione del declino è essa stessa declino.

Sia che si tratti di paura per il non più ripercorribile divario con l’arcadia che molti custodiscono nel cuore, sia che si tratti dell’ossessione per un’idea di progresso che prevede un avvenire ipotetico ormai non più raggiungibile a causa dell’abbrutimento dell’uomo contemporaneo. 
Il vero declino personale è non essere capaci di  pensare al proprio presente senza dover sposare la rassegnazione,  il cinismo spicciolo, la spregiudicatezza, la simpatia infingarda del piazzista di bond, il sorriso dell’uomo copertina (vedi foto), la performatività, la mancanza d’entusiasmo e di volontà. Volontà principalmente di praticare forme d’esistenza diverse da quelle declinanti da cui nessuno di questi lamentanti di professione sembra volersi veramente dissociare. Secondo la ben nota strategia che prevede di mettere in discussione il fenomeno (che può essere conveniente) senza avere il coraggio di mettere in discussione la causa (che può essere sconveniente).

 

Sorriso?

 

dissenso