Dei giorni che passarono pochi si fecero memoria
e molti divennero fatica, gravàme,
operosità e guadagno.
Altri furono rimessa e sconfitta
mestizia e congedo.
Commercio consueto.
Solo alcuni scintilla, piccolo lume
in lontananza nell’oscura traversata,
sentiero tracciato che resta sentiero*
anche quando l’ultima luce sembra
affievolirsi, quando la nebbia s’addensa.
In alcuni avrai detto ciò che dovevi
e in altri taciuto ciò che era bene tacere.
In giorni spargoli di festa
sarà stato il tempo giusto dell’azione,
del varco che si apre per chi è pronto.
Nella gran parte invano sembrerà passato il tempo,
ma sarà chiaro, a chi resiste,
che non è così.
Si imparano molte cose dall’esperienza di un’alluvione. Con tutto il rispetto e facendo tutte le dovute differenze con chi da un’alluvione si è visto strappare tutto il molto o il poco accantonato in una vita di sacrifici (o anche senza sacrifici, la distinzione è inutilmente e strumentalmente ideologica). O più ancora con chi a causa di un’alluvione ha perso la vita e non può stare a raccontare cosa avrebbe fatto volentieri il giorno dopo. Ma, con buona pace di tutti quelli che non perdono mai l’occasione per tacere e intimano al prossimo il silenzio per motivi di opportunità mai ben spiegati, io vi racconto della mia alluvione. Vi racconto cosa ho imparato da quelle sei ore fuori da ogni schema che ti lasciano con 140 cm di acqua e fango in casa.
Ho imparato non tanto, come si usa ripetere in questi casi, quanto si è piccoli e impotenti e inefficaci di fronte alle forze della natura, che per questo erano bastanti tutte le dimostrazioni, le morti, le disgrazie pregresse e le inefficacie lampanti dei 43 anni già passati in compagnia di umani di ogni tipo e in situazioni limite, ma quanto siano fondamentali la solidarietà e l’aiuto gratuito di chi compone la tua rete sociale. Che l’apparente impraticabilità di ogni strategia, che all’inizio rende difficile elaborare una risposta sensata, si dimostra minuto dopo minuto sempre più apparente e sempre meno impraticabile e, man mano che gli amici si sostituiscono, quando alla pala, quando al trasporto di oggetti irriconoscibili, quando al secchio e alla spugna, quando alla battuta di spirito che riporta il non ordinario alla terra, sempre più un problema faticoso che un poco alla volta si risolve.
Ho imparato che la parola Comunità, che viene spesso usata per rimarcarne l’assenza e un bisogno diffuso, ha davvero a che fare con qualcosa di morto. Con un sentire senza tempo seppellito dalle ideologie e dalla schadenfreude. Se esistesse ancora un sentire comunitario i vicini di casa avrebbero osato varcare il cancello di casa e, oltre a osservare il fango e pronunziare qualche frase di circostanza, ringraziando al contempo il maltempo per aver colpito l’altrui dimora, avrebbero aiutato, anche poco, quanto consentito dalle capacità, dal tempo, a sgomberare l’allagato, a spostare qualche mobile restituito dall’acqua gonfio e inutilizzabile. Avrebbero provveduto a rinforzare il conforto verbale con una Moka di caffè rovente.
Tutto questo non accade.
Ho imparato che restituire alla vita quotidiana una casa alluvionata è la cosa più faticosa mai fatta. Che le istituzioni non esistono. Non esistono prima, non esistono durante, non esistono dopo. Non esistono prima, nella scriteriata gestione del territorio, non esistono durante, nella loro totale assenza dalla scena, non esistono dopo nel mancare l’occasione di cambiare finalmente orientamento nella gestione del territorio. L’unico atto istituzionale pervenuto è la distribuzione dei moduli per la richiesta danni.
Ho re-imparato che la colpa muore fanciulla, ma al contempo si è giaciuta con molti. Che è meglio fare prima che spalare poi. Che ogni fenomeno ha un suono che è il proprio e l’alluvione non fa eccezione. Quando alle tre di notte l’ho ascoltato per la prima volta in vita mia sapevo che era esattamente il suono dell’alluvione. Che far funzionare il cervello al ritmo di salita del livello dell’acqua non è facile e così, col fango al ginocchio, nel buio rischiarato da una minitorcia tenuta in bocca, ci si affretta per salvare qualcosa, ma non si riesce a pensare cosa salvare, molto è già finito sott’acqua, il resto è nel buio, ciò che resta visibile è troppo grande per le braccia di un uomo solo. Così si finisce per salvare ciò che è vicino alle scale, qualcosa che galleggia, prima di desistere per paura di rimanere sotto un mobile.
Come scriveva Nietzsche, e diceva il signor Geiser ne “L’Uomo nell’Olocene” di Max Frisch, bisogna essere pronti a tutto. Soprattutto quando sembra non essercene bisogno.
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