Brevemente, perché lo scopo principale di questo post è invitare alla lettura della poesia di Fabio Franzin e perché non amo ragionare “sulla poesia” e affardellarla di tanti discorsi. Potrete trovare altrove in rete articoli più accreditati. Io vorrei solo invitarvi alla lettura non solo di questi due testi che io ho scelto, ma di tutta la raccolta. Franzin ci racconta coi suoi versi di un mondo (quello che ha preceduto la rivoluzione industriale italiana e il boom economico ormai alla fine) ormai ridotto a una filigrana invisibile ai più. Della vita di fabbrica che l’autore conosce bene. Delle nuove povertà, quelle incombenti e quelle già in atto. Il suo libro è caratterizzato da una grande coesione stilistica, dall’intensità dei temi affrontati, da una scelta linguistica che appare come un tentativo esso stesso di resistenza culturale e biologica, un tentativo, come hanno scritto altri, di non estinguersi e di non farsi estinguere. Un inserto dissonante nel grande coro degli allineati all’obbligo linguistico dominante.
Troverete forse, come me, anche qualcosa che non vi convince e che non potrete condividere. Ma al momento è una delle poche opere contemporanee di coraggio e di perizia che il sottoscritto abbia avuto modo di leggere.
La prima poesia è quella con cui inizia la sezione “Ciamàrse fòra (Farsi da parte)” dedicata a Ernesto Girotto. La seconda è quella con cui si apre la sezione “FABRICA (Fabbrica)” che dà il titolo alla raccolta. Non è in formato testo per conservare l’impaginazione originale.
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A Ernesto Girotto
I
Lo sintìa sì lu el vrunvrun dei tir
carghi de ròba passàr ‘pena de ‘à
dei àrdheni tràdhi su co’ un zhiesón
e i zhochi intassàdhi drio ‘l confìn
del só tochét de tèra, fra ‘e culière
de zhucòi, zhenòci e capuzhi, verdhe
e fasiòi, fra rame de pèrseghi e àmoi,
el fresco butà su dal pozh, caeà zó dae
fòjie dee cassie e dai saézhi; lo sintìa
sì, fra ‘l fis.ciotàr dei oseéti e ‘l crack
dea manèra, o ‘l siénzhio de un ago che
fa passàr un fil pa’a mièsima volta tel
stesso pèr de braghe, a tacàr tacón sora
tacón, pòro Arlechìn de tre cóeori soi:
blè, griso e bèis. I dise che ‘l se sie serà
su, là, eremita vegetariàn, dopo el no
de ‘na morosa. Chissà… quaranta àni
cussì però no’ i basta a spiegàr… ‘sta
eternità pa’ paidhìr un doeór, ‘a deusión
del cuòr! Resta el só eden-presón, tece
sbièghe del secèr, resta ‘e fòjie seche che
core tel cortìo de un mondo sémo de fèro
e plastica, cavi fissi de vose che ‘à pers par
senpre el nome dei fiori, busìe che te un
istante ‘e riva voltra oceani e montagne,
àneme che se vende pa’ cronpàr roba, che
ghe ròba l’aria ai àlbari, el canto a l’aqua.
I
Lo udiva sì lui il rombo dei tir / carichi di merci passare appena
di là / degli argini innalzati con una siepe / e bastioni di ciocchi
ammucchiati lungo il confine / del suo podere, fra le aiuole / di
zucchine, finocchi e cavolo cappuccio, verze / e fagioli, fra rami
di pesche e susine selvatiche / la frescura esalata dal pozzo, dall’ombra
/ del fogliame delle robinie e dei salici: lo udiva // sì, fra
il cinguettio degli uccelli e il crack / della mannaia, o nel silenzio
di un ago che / trascina un filo per la millesima volta sullo /
stesso paio di brache, a saldare rattoppo sopra / rattoppo, povero
Arlecchino di tre soli colori: / blu, grigio e beige. Leggenda vuole
che si sia esiliato / là, eremita vegetariano, per il rifiuto dell’amata.
Chissà… quarant’anni / così però non bastano a spiegare…
questa eternità per espiare un dolore, la delusione / di un
cuore! Resta il suo carcere-eden, pentole / oblique nel secchiaio,
restano le foglie secche che / corrono per l’aia di un mondo idiota
d’acciaio / e plastica, di bande elettroniche fitte di voci che hanno
perso per / sempre il nome dei fiori, menzogne che in un / istante
oltrepassano oceani e montagne, / anime che si vendono per comprare
delle cose, che / rubano l’aria agli alberi, il canto all’acqua.
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Guarda quegli operai, nota / come sono assorti / fra i loro pensieri
mentre si / concedono una sigaretta seduti / contro il muro della fabbrica
// guardali, stanchi e sporchi, / con i jeans che un tempo /
erano alla moda, ed ora / sono solo un paio di brache / troppo corte
e rattoppate // con quelle camicie sbiadite, / le scarpe lerce di colla /
o di oliaccio, ciglia e capelli // gialli di segatura. Sembrano quasi / dei
clown fuggiti // da un circo, così, ridicoli / e malinconici come i comici
/ del cinema muto, e muti sono / anch’essi perché la fatica / gli
ha estirpato la parola // guardali ora mentre schiacciano / la cicca
sotto i piedi e a capo / chino ritornano dalle macchine / che attendono
ancora i loro atti / servili; i sogni volati altrove.
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Fabio Franzin
Fabrica e altre poesie
Giuliano Ladolfi Editore
Borgomanero (NO), 2013
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