I nostri vicini di ombrellone, ben due famiglie, mescolano le caratteristiche più pittoresche del Cumenda Braghetti/Nicheli, quello di Alboreto is nothing, e dell’emigrato incomprensibile di Bianco, Rosso e Verdone per un ibrido reale che fa intravedere il futuro socioculturale di questo paese terrorizzato dallo straniero invece che da sé stesso.
sottoclou
Come nel film di John Carpenter
In autostrada visibilità quasi nulla per via della tempesta e pozze d’acqua che verrebbe voglia di fare pit-stop per il cambio gomme. Mi sorpassa una Smart a una velocità che, tenendo presente la mia e la velocità con cui scompare nel nulla, potrei quantificare in 150km orari. Dietro mi segue a distanza ravvicinata una berlina senza fari che mi fa venire in mente un film di John Carpenter.
In macchina una canzone degli Housemartins a volume alto mi ricorda la gioventù, che rottura di cazzo il turno di notte.
I poponi e i ramarri
In ogni discussione tra colleghi, è inevitabile, arriva sempre qualcuno che ha scavato a mani nude nella miniera di diamanti, che ha guidato il bilico per 179 ore consecutive, che a 50 anni ha 44 anni di contributi, che ha fatto guerra di trincea sopravvivendo e utilizza queste sue sovrumane fatiche come paradigma per valutare l’intensità delle altrui difficoltà lavorative. Una furia dialettica alimentata da numerosi “sai una sega te!” e altrettanto innumerevoli “vai a sentire, vai! Alla bastianacci e shostakovich come si lavorava…” Dove ovviamente si rischiava di morire ogni minuto.
Racconti che tracciano scenari che sembrano strappati alle scene più strazianti de “Il salario della paura”.
E invece hanno movimentato i poponi per tutta la vita.
I poponi e i ramarri.
Fonte: Opera propria (© Jared C. Benedict)
English: Transferred from en.wikipedia.org
Lui non sa dell’obsolescenza programmata
Lui/lei non sa dell’obsolescenza programmata e tenta disperatamente di far funzionare un dispositivo apparentemente quasi nuovo, ma irrimediabilmente non più funzionante. E ci si accanisce convinto/a di riuscire. A volte sono più di uno. Si accaniscono, imprecano, studiano soluzioni, nessuna di valore.
Una vera vita di merda.
Quello che beve un’intera bottiglia (cose che succedono al parco giochi) | Sottoclou XXI sec.
Non sono solito ascoltare illecitamente le altrui conversazioni telefoniche. Le ascolto solo quando sono in un luogo da cui non posso muovermi e il mio vicino parla a volume sconsiderato dei cazzi propri. E in quel caso le devo ascoltare per forza. Dunque a volte mi capita davvero di ascoltare involontariamente conversazioni telefoniche di vicini di posto in treno, di colleghi, di persone tra gli scaffali dei supermercati, al bar. Mi capita di doverle ascoltare perché sono condotte a volume inadeguato e in luoghi inadatti. Dunque le ascolto mio malgrado. E non capita mai di ascoltare una dichiarazione d’amore, una poesia recitata con perizia, il racconto di una memorabile rovesciata in una partita di calcio mai vista quarant’anni prima, la descrizione dettagliata di tutte le percezioni dovute a un bicchiere di vino, una canzone composta sul momento e telefonata a un caro amico. No. Non è mai niente di tutto questo.
Ed è una situazione che capita sempre più spesso quella di ascoltare le conversazioni altrui, tanto che a volte ci si intende una volontà di essere ascoltati, di essere registrati come viventi, una affermazione pubblica della propria individualità. Capita spesso di dover ascoltare le playlist dei bimbyminchia col telefonone che cambiano canzone ogni dieci secondi. A quel punto gli obblighi diventano due. Non potersi spostare ed ascoltare. Che è pure una condanna. Spesso è proprio una vera rottura di cazzo. E allora, dal momento che sono obbligato ad ascoltare, mi faccio un’idea, giudico severamente. Tiro anche delle conclusioni. Conclusioni momentanee, senza destinatario, senza scopo.
Inoltre essere messo a parte di segreti, siano essi incoffessabili veri segreti o solo manfrine dialettiche tese all’irretimento, mi mette a disagio. Essere messi al corrente di un segreto è essere zavorrati, una chiamata in correità, intrusione fraudolenta di un cavallo di troia nell’immaginario, una richiesta indebita di complicità, violenta trasparenza indotta dal vivere nel nostro presente panoptico fatto di reti sociali dematerializzate, dove tutto è simultaneamente esposto al giudizio di tutti nella ossessiva ricerca di riconoscimento. Come scriveva Baltasar Gracián “i segreti, nè si devono ascoltare, nè dirli” ed io mi attengo scrupolosamente a questo monito saggio.
Ma torniamo all’inizio. Al motivo per cui sto scrivendo.
Tempo fa mi venni a trovare in un parco pubblico di Pistoia (capitale della cultura 2017) con Leone, il mio giovane figliuolo. C’era alta densità di bimbi, alta densità di genitori, alta densità di telefoni cellulari. Alta densità di telefoni cellulari utilizzati in diretta. Alta densità di esaurimento. Alta densità di grida. Io e la borsa con le cose necessarie a un babbo occupiamo una mezza panchina libera e mi metto a vigilare sui giochi di Leone. L’altra metà della panchina è occupata da una mamma con bambino. Che a un certo punto impugna il cellulare e comincia una conversazione telefonica a voce altissima, letteralmente urlando dentro il telefono. L’interlocutore all’altro capo lo immagino stordito, paralizzato nel gesto di tenere il telefono verso il cielo tentando di disperdere quell’onda inarrestabile di discorsi sparati a un livello di decibel intollerabile. La chiamata continua per quasi tutto il tempo della mia permanenza al parco giochi. Ed è una escalation. La signora in questione si lamenta palesemente del proprio partner descrivendolo, davanti a una platea piuttosto vasta e ignorando che in paesone come Pistoia, nonostante sia stata dichiarata capitale italiana della cultura, la possibilità di trovarsi accanto a un parente, un amico, un conoscente, un impiccione che aspettava solo l’occasione di venire a conoscenza di un particolare segreto da rivelare istantaneamente durante una sessione di gossip a sera tarda al pub, quando la conversazione si fa stanca e non c’è niente di meglio che parlare delle vite altrui, è altissima, come un insopportabile buono a nulla, un grande navigatore di divani, dedito all’alcol. Questo particolare per la signora è importantissimo. Lo investe di grandi aspettative nel suo tentativo telefonico di sputtanare il compagno perché insiste ripetutamente sull’argomento fino ad arrivare all’argomentazione definitiva. “Certe sere beve addirittura un’intera bottiglia” dice con disprezzo. Questo insistere sull’intera bottiglia come unità di misura della dissoluzione umana richiama la mia attenzione fino a quel momento discontinua. E penso in silenzio alcune cose. Prima di tutto spero che sia vino bono ché, si sa, il vino poco buono fa male e comunque intristisce. E poi penso anche che nella lamentazione la signora investe la bottiglia di troppa importanza e comunque a mano a mano che la sua conversazione telefonica procede, e la protagonista si inoltra in territori pericolosi che non ho alcuna intenzione di ascoltare, io intravedo nitidamente 4/5 motivi per cui potrebbe essere il compagno a lamentarsi e 4/5 motivi (gli stessi) per cui lui potrebbe decidere di bersi una bottiglia tutte le sere, anche più di una bottiglia e decidere di darsi anche alla droga pesante. Pensato questo ho cambiato panchina, nonostante la prima fosse all’ombra e in posizione strategica, per raggiungerne un’altra dove non ci fosse l’accompagnamento della telefonata e finire comunque per dover ascoltare la sua telefonata come un elemento dominante, nonostante il vociare dei bimbi, il rumore dei motori in lontananza, qualche clacson, adolescenti rumorosi, uccelli, cani.