Un giardino in riva al mare

Una volta arrivati a Punta Ala c’è da chiedersi principalmente perché ci si è andati. C’è da chiedersi perché sulla via Aurelia, all’altezza del bivio per Tirli e Punta Ala, si sia scelto quest’ultima destinazione invece del sopravvalutato e pittoresco borgo di minatori toscani. Dove sarebbe stato possibile bere una birretta seduti al tavolo di un bar ordinario a un prezzo ordinario (cosa che è successa dopo). Punta Ala è un Santuario della religione abbandonata dell’ottimismo seguito all’italico boom, un monumento a un brioso presente-aperitivo a ciclo continuo di una cena-futuro ancora più briosa e sempre di là da venire e che comincia a palesarsi perlomeno improbabile. Un paese fantasma ben tenuto, a distanza di sicurezza dal reale e dalle sue contraddizioni. Ma lasciamo perdere queste considerazioni sicuramente pregiudiziali e legate al gusto personale e parliamo del pratino di Punta Ala.
Il pratino che accoglie il pellegrino, il viandante, il semplice visitatore compresso tra il fronte di cemento e il mare, si presenta col cartello, quello che si può vedere nella foto. E il cartello detta le regole e ci dà un’informazione fondamentale per capire la natura del luogo dove siamo arrivati. Un giardino dove non ci si può sdraiare, non si può giocare, non si può portare il cane a cacare. L’unica cosa consentita è portare una paletta per rimuovere un’ipotetica merda di cane che però è vietato far cacare nel giardino. L’unica cosa consentita è diligentemente pulire lo sporco che qualcun altro ha incivilmente abbandonato in riva al mare. Le informazioni sono confuse. Ma anche questa analisi può essere considerata un prodotto delle proprie convinzioni. Ciò che è invece chiaro, aldilà di ogni proiezione personale, è che non è un’ordinanza comunale a proibire le normali attività di un giardino pubblico. Bensì una s.p.a.
Perché il luogo è gestito da una holding privata e questo ci racconta molto del mondo a venire, quello degli ultra high net worth individuals e dei loro ghetti fortificati e del resto del mondo abbandonato ad una deregulation falsamente propagandata come naturale, delle enclosures diffuse, della privatizzazione di tutto ciò che si può ritenere legittimamente un patrimonio comune (c’è del resto chi ritiene che la proprietà privata e il mercato siano una cosa naturale e utilizza pericolosamente il termine naturale e i suoi derivati ideologici) e in cui ogni cosa potrà essere considerata merce. Anche l’aria che respiriamo.

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La proliferazione di minibuddha

Proliferazione di minibuddha. Foto scattata a Chiang Mai (Nord Thailandia) al Wat Phrathat Doi Suthep (วัดพระธาตุดอยสุเทพ per il lettore Thailandese) e ritrovata in un rullino sviluppato, ma mai mandato in stampa, e rimasto in una busta dal febbraio 2010.  È stato il primo rullino che ho passato dentro il nuovo scanner (in questo modo mi svincolo dall’uso pericolosissimo del participio passato del verbo che non voglio usare nemmeno all’infinito presente) per pellicole fotografiche che ho appena acquistato.